sabato 23 agosto 2003

intanto, irriducibile, il manifesto...

il manifesto, 23.8.03
La svolta di Lacan sull'inconscio

Nell'XI «Seminario» una tappa fondamentale: in accordo con la teoria freudiana, l'inconscio mantiene il suo carattere di discontinuità del discorso cosciente, così come la rivelano i sogni, gli atti mancati, i lapsus. Ma dal suo maestro Lacan si discosta negando che l'inconscio sia tutto determinato dal nostro passato, perché esso può compiersi, ed esige eticamente di farlo, nell'avvenire
di Massimo Recalcati
L'undicesimo Seminario di Lacan segna una tappa unica e nevralgica nel tragitto delle famose lezioni, e fin dal titolo I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, lascia intendere il suo carattere di introduzione ad alcuni concetti chiave: inconscio, ripetizione, transfert, pulsione. Tuttavia, non è un dizionario quello sviluppato qui da Lacan: a una idea del genere avrebbero pensato, in seguito, due suoi ex-allievi, Laplanche e Pontalis (travasandovi, tra l'altro, in modo piuttosto discutibile, una serie cospicua di motivi tratti da Lacan stesso). Il giusto prestigio che questo Seminario - ora pubblicato da Einaudi in una nuova edizione a cura di Di Ciaccia - ha acquisito negli anni non deriva da una intenzione divulgativa; perché esso si presenta, al contrario, cesellato come un diamante teorico raffinatissimo. La sua importanza consiste, per cominciare, nel fatto che per la prima volta Lacan abbandona con decisione gli abiti del magistrale commentatore del testo freudiano per formulare, con Freud ma anche oltre Freud, la propria concezione dell'inconscio: ovvero, quel che nomina «algebra lacaniana». La differenziazione tra l'inconscio di Lacan e l'inconscio di Freud occupa, in modo emblematico, le sedute di apertura del Seminario. Ma in cosa consiste la distanza che Lacan prende da Freud, al quale tuttavia si richiamerà espicitamente sino alla fine dei suoi giorni? Con Freud egli vuole affermare che l'inconscio della psicoanalisi non ha la natura che gli attribuivano i romantici: non è l'inconscio delle tenebre o degli archetipi, né la «primordiale volontà oscura»; piuttosto è «intoppo, mancamento, fessura», è ciò che si manifesta negli zoppicamenti del discorso cosciente. Fin qui Lacan congiunge il suo concetto di inconscio con quello di Freud: sogni, atti mancati, lapsus, sbadataggini, dimenticanze sono esperienze che introducono quella «discontinuità» - parola pivot di tutto questo Seminario - nel discorso cosciente. Tuttavia, diversamente da quanto si deriva dalla teoria freudiana, il soggetto dell'inconscio non è già tutto scritto, non è già tutto determinato dal peso del già stato, per esempio, da quanto è avvenuto nell'infanzia. Inconscio e memoria storica vengono nettamente disgiunti, da Lacan, da inconscio e ripetizione: non siamo nell'ordine del già stato che si riattualizza, ma in quello del «non realizzato». Detto altrimenti, l'inconscio lacaniano non è al passato (più o meno remoto) ma è qualcosa che puòcompiersi, ed esige eticamente di farlo, nell'avvenire.

La posta in gioco di questo Seminario, la sua valenza morale, riguarda il problema di come costruire una teoria libidica del soggetto senza scadere in un determinismo che annulli le possibilità della sua propria realizzazione. Nel testo-manifesto del `53, invece, titolato Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, la tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio sembrava derivare direttamente dalla grande trilogia freudiana (L'interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito) che lo descrive come una macchina ermeneutica capace di produrre senso e di ricondurre ad esso anche quelle formazioni secondarie, come un lapsus o un atto mancato, che sembrerebbero sfuggirvi. In quel contesto le figure retoriche della metafora e della metonimia venivano da Lacan, col soccorso di Jackobson, direttamente ricavate dai principi freudiani dello spostamento e della condensazione, che orientavano il lavoro onirico come una cifratura enigmatica in attesa di venire decodificata dall'interpretazione dell'analista. Ebbene, la svolta segnata dal Seminario XI - come fa notare nel suo commento Jacques-Alain Miller - consiste nel sostituire alla centralità della coppia «ermeneutica» metafora-metonimia quella, inedita, della coppia alienazione-separazione.

L'alienazione lacaniana indica che il tessuto del nostro essere più proprio viene dall'Altro storico, sociale, familiare in cui si trova iscritto: il tessuto nel quale ci formiamo è fabbricato dall'Altro eppure è anche il «nostro». E' questo «eppure» a venire messo in tensione nella dialettica alienazione-separazione. Il problema cruciale, che attraversa per intero non solo l'insegnamento di Lacan ma tutta la dottrina psicoanalitica, riguarda il come si intreccino la libertà della separazione col vincolo dell'alienazione. Lacan si lascia guidare dal celebre quadro di Hans Holbein titolato Gli Ambasciatori, riportandolo in apertura del suo Seminario. Vi si vedono due signori distinti, impagliati nelle loro divise sociali, avvolti dallo «spirito di serietà» che esige il loro ruolo, circondati da oggetti che richiamano le virtù e il prestigio del loro sapere: «simboli della vanitas» li definisce Lacan. In questa rappresentazione, però, qualcosa attira il nostro sguardo - qualcosa fa «macchia» direbbe Lacan - su un oggetto misterioso dai contorni indefiniti, situato proprio al centro del quadro. Questo oggetto «strano, sospeso, obliquo» è il frutto di una anamorfosi: ovvero, come la definisce Jurgis Baltrusaitis nel suo celebre Anamorfosi o Thaumaturgus opticus, un sotterfugio ottico che provoca una disgregazione delle forme perché esse possano ricomporsi in modo imprevedibile solo in un secondo tempo.

Così, l'oggetto «strano, sospeso, obliquo» che Holbein piazza al centro dell'opera si rivela a chi getta, prima di andarsene, un ultimo sguardo sul quadro, un teschio che rimanda alla presenza perturbante della morte, tendenzialmente esorcizzata dalla compostezza formale delle figure dei due ambasciatori. Questa apparizione dell'oggetto-teschio, dell'insensato, produce una separazione da tutta quella rete di significanti che ci fanno esistere nella nostra condizione di esseri strutturalmente alienati. In fondo Lacan segue, qui, la lezione di Heidegger, mentre ci ricorda che solo nell'assunzione del nostro essere votati alla morte, ovvero del nostro limite più radicale, risiede la possibilità di vivere con radicalità il nostro desiderio.

Ma c'è un'altra ragione di unicità nel Seminario XI e riguarda la circostanza «politica» in cui Lacan prende le distanze dalla teorizzazione frudiana dell'inconscio. Inizialmente, il tempo di questo Seminario viene scandito dalla «scomunica», ovvero dalla definitiva rottura di Lacan con l'Associazione psicoanalitica internazionale (IPA) e, in conclusione, è segnato dalla fondazione della scuola lacaniana. Non si tratta, dunque, come ricorda puntualmente Jacques-Alain Miller nella introduzione riportata a chiusura del volume, solo di un Seminario teorico, ma di un pensiero che nasce da una vivace e dolorosa battaglia istituzionale, destinata a segnare profondamente la storia della psicoanalisi, e non solo in Francia.

Lacan sceglie l'ebreo Spinoza, oggetto nel 1656 di scomunica da parte della comunità ebraica di cui faceva parte, come paradigma della sua posizione: non da lui si originò la rottura, infatti, ma dalla comunità analitica internazionale, ispirata dai consigli di Marie Bonaparte. Non è certo un caso se, al momento di creare una nuova istituzione analitica, cosa che avvenne il 21 giugno 1964, per dimostrare di non essere affatto un dissidente Lacan scelse di battezzarla Ecole freudienne de Paris.