sabato 20 settembre 2003

«Cosa pensa un neonato?»

(segnalato da Sergio Grom)

Su "D" di Repubbllca di oggi, 20.9.03, un articolo dal titolo:
Ma che cosa gli passa per la mente?
Di Sylvie Coyaud


Fino a pochi anni fa, i ricercatori consideravano il cervello del neonato una tabula rasa, poi plasmata dall'esperienza. Le ultime scoperte di genetica e neuroscienza ribaltano la teoria: si viene alla luce con molte capacità programmate. E tra le più importanti c'è quella di sognare

A 9 mesi un bebé è in grado di riconoscere espressioni facciali, o verbali di felicità, tristezza o rabbia e di riprodurle, facendole proprie. Sa modellare le emozioni su quelle altrui e reagire ai segni di rimprovero o approvazione. A un anno, guarda l'oggetto indicato da un dito, e non il dito

I bambini hanno da subito idee sugli altri esseri umani, gli oggetti e il mondo. Sono come piccoli scienziati: acquisiscono in continuazione nuovi dati e scartano le teorie che non combaciano con essi. Ma da quali meccanismi di apprendimento nasce la comprensione?»

Sesarà provata l'esistenza dell'organo del linguaggio e si troveranno i geni responsabili di formazione e manipolazione dei simboli, allora diventerà evidente che le facoltà cognitive sono innate, e si manifestano quando si impara a comunicare


A una mamma basta guardarlo per accorgersi che il pupo sprizza intelligenza da tutti i pori. È lei che s'illude, o il piccolo è davvero già pronto a capire il mondo? A dar retta a certi ricercatori, lo è. Siccome, negli anni Novanta, sono partiti insieme il progetto Genoma umano e il "decennio dei cervello", oggi genetica e neuroscienze si alleano per ribaltare gli studi precedenti ed elencare le facoltà superiori programmate nel cervello dei neonato.

Alison Gopnik, ex filosofa della scienza all'Università della California, a Berkeley, e oggi riconvertita alla psicologia cognitiva infantile, ha scritto con i colleghi Andrew Meltzoff e Patricia KuhI un libro in cui sostiene che c'è «uno scienziato nella culla» (A Scientist in the Crib, William Morrow, 1999). In un'intervista data al New Scíentist nel maggio scorso, Gopnik faceva un bilancio delle ricerche più recenti: «Oggi sappiamo che i bambini sanno più di quanto pensavamo fosse possibile. Hanno idee sugli altri esseri umani, sugli oggetti e sul mondo, nel momento stesso in cui nascono. Sono idee piuttosto complesse, non soltanto riflessi o reazioni a determinate sensazioni. I bambini sono come piccoli scienziati, acquisiscono nuovi dati in continuazione e scartano le teorie che non combaciano con essi. Cambia la loro comprensione sulle cause di certi fenomeni. li che porta a domande difficili: come viene rappresentata questa comprensione della struttura causale del mondo? E attraverso quali meccanismi di apprendimento nasce la rappresentazione? ».

Alison Gopnlk utilizza le parole "idea" e "scilenziato" In senso molto lato. Qualsiasi animale acquisisce nuovi dati in continuazione e li smista in categorie (o secondo teorie) appropriate: il giorno che smette di farlo smette di vivere, ma nel frattempo non è diventato Albert Einstein o Marie Curie. Detto ciò, fino a pochi anni fa erano gli scienziati a farsi idee sbagliate pensando che il cervello dei neonato fosse una tabula rasa, un'argilla che sarebbe stata plasmata dall'esperienza (la cultura) come Adamo dal suo creatore. Adesso prendono il sopravvento i fautori dei geni (la natura) e dei loro prodotto: un cervello già corredato.

Esperimenti recenti hanno mostrato che gli strumenti per imparare ci sono sin dalla nascita. Andrew Meltzoff, il coautore di A Scientist in the Crib, si è presentato al reparto maternità dell'ospedale dell'Università del Washington, a SeattIe, e si è chinato a intervalli regolari su alcuni neonati, facendo smorfie. Ha scoperto che 42 minuti dopo essere stati partoriti, già erano capaci di ricambiare. Non avevano ancora il controllo motorio per riprodurre le smorfie con precisione, ovviamente, però atteggiavano i muscoli della bocca - che si sviluppano prima - in modo ben riconoscibile.

Più che scienziati nati siamo scimmiottatori nati, e lo restiamo ben oltre l'infanzia. Deborah Custance, cleil'Università di Londra, ha misurato ì'imitazione nei bambini da uno a tre anni e quella di diverse specie di scimmie. Ha calcolato che, in media, quella delle scimmie arriva al 60 per cento della nostra. Mentre i piccoli d'uomo si concentrano con molta attenzione sui gesti di chi conduce l'esperimento, le scimmie si distraggono non appena hanno capito lo scopo (spingere fuori delle palline da una scatola, per esempio) e pretendono la ricompensa anche se lo hanno raggiunto con altri mezzi (magari sfasciando la scatola).

L'imitazione è preziosa: imprime gesti, fattezze, suoni nel corpo oltre che nella mente, fa imparare e ricordare quello che si è imparato. A nove mesi, i bambini sono in grado di riconoscere espressioni facciali o verbali di felicità, tristezza o rabbia e, imitandole, di farle proprie. Inoltre sanno modellare le emozioni su quelle degli altri e reagire ai segnali di approvazione o di rimprovero. A un anno, si rendono conto della differenza tra i punti di vista, cioè del fatto che la persona di fronte a loro non vede quello che loro vedono. Di conseguenza, si girano per guardare un oggetto indicato da un dito, invece di tenere gli occhi sul dito stesso. Sembra facile, ma bisogna proiettarsi mentalmente nel corpo altrui, cosa che poche scimmie antropomorfe riescono a fare da adulte.

A sostegno della teoria dei cervello programmato, poi, c'è il fatto che mesi prima di emettere rumori nei quali solo un genitore adorante coglie la parola "mamma" o "papà", i neonati riconoscono certe sillabe in parole inventate, certe regolarità nei suoni, nei ritmi e nei timbri. Ma questo si deduce da esperimenti che stanno sollevando polemiche, perché tirano in ballo il famigerato "organo dei linguaggio". Chiediamo scusa per le virgolette e i condizionali, ma nessuno sa se l'organo esista davvero.

Semplificando molto, la facoltà dei linguaggio ci permette di manipolare simboli (parole, concetti, ma anche immagini, note musicali oppure segni matematici; le rappresentazioni astratte, insomma) combinandoli per ottenere una varietà quasi infinita di espressioni. Spostandoli in avanti o indietro nel tempo e nello spazio, ci raffiguriamo gli oggetti e i rapporti tra di essi, anche quando non possiamo percepirli, anche quando non ne abbiamo mai avuto un'esperienza diretta, Il linguísta Noam Chomsky, senza dubbio il più influente dei Novecento, ha ipotizzato l'esistenza di un organo innato del linguaggio. Questo spiegherebbe l'esistenza di "regole combinatorie" comuni a tutti gli idiomi, e quindi la facilità con la quale i bambini imparano la lingua materna e le altre.

Marcela Peña e Jacques Mehier, della Scuola internazionale di studi superiori avanzati di Trieste, in collaborazione con altri neuroscienziati e linguisti, conducono da anni esperimenti calibrati in maniera sempre più sottile. All'inizio di settembre hanno pubblicato i risultati della loro ultima ricerca sui Proceedings of the National Academy of Science. A neonati fra i due e i cinque giorni di vita hanno fatto ascoltare registrazioni di frasi italiane, rilevando una maggiore attività nell'emisfero sinistro, dove nel cervello adulto si trovano le aree del linguaggio. Se si facevano sentire le stesse registrazioni ma all'incontrario, prive cioè della normale cadenza, non c'era la stessa attività. In precedenza, Peña e Mehler avevano ottenuto dati altrettanto significativi facendo ascoltare ad altri piccolissimi parole inventate o sillabe cadenzate: anche in questo caso, con la registrazione al contrario non si otteneva alcuna reazione. Gli studiosi hanno dedotto l'esistenza di una reazione innata all'intreccio di suoni e silenzi che accomuna tutte le lingue, e ci fa immediatamente riconoscere che uno straniero sta parlando e non emettendo rumori privi di senso.

Dovremmo dedurre che l'organo dei linguagglo c'è, é innato, e che non è vero che nel bambini si forma con il tempo e l'esperienza? Se escludiamo i negazionisti tout court, la risposta dipende dagli scienziati cui si pone la domanda. Biologi e psicologi evoluzionisti vogliono sapere da dove proviene il benedetto organo, ammesso che ci sia. Sarà pur evoluto a partire da una facoltà già presente in qualche antenato, ma quale? Non nei primati dai quali discendiamo; usavano grida e grugniti, probabilmente, e dai reperti fossili si deduce che non avevano la laringe adatta a modularli. Forse in specie più remote come gli uccelli o le balene, che hanno un canto modulato? «No, quel canto è la prerogativa dei maschi e soltanto in determinate stagioni», dice Marc Hauser di Harvard, autore del bel libro Menti selvagge (Newton Compton), «Ha funzioni limitate, serve a difendere il territorio o a richiamare le femmine». Ci pensa un po' e aggiunge: «Anche noi parliamo per dire "stammi alla larga" o ti amo", ma non solo».

Marc Hauser ha una visione più generale, Pensa che ci siano state evoluzioni parallele dei canto, apparso in regni animali diversi in momenti diversi. Secondo lo studioso, la comunicazione, il canto e la percezione delle consonanze e dissonanze dai quali derivano il linguaggio e la musica (ma anche l'identificazione di quantità numeriche che sta alla base della matematica, e persino certi principi inconsci per distinguere il bene e il male) sono variazioni su un unico tema. Sono le "forme della conoscenza" che tutti gli animali possiedono, in maniera più o meno sviluppata. Identificare e riconoscere elementi dell'ambiente, comunicare, apprendere, ricordare è la norma per animali, piante, batteri, per il sistema immunitario, addirittura per le singole cellule. Anzi: insieme alla capacità di riprodursi, sono le caratteristiche della vita. Non ce ne vogliano le madri estasiate e Alison Gopnik, ma dire che un neonato le possiede e gli scienziati pure non è un complimento.

Se sarà provata definitivamente l'esistenza dell'organo dei linguaggio, se si troveranno i geni preposti alla sua formazione e magari alla manipolazione dei simboli, allora sarà evidente che le facoltà cognitive sono già iscritte nel cervello dei neonato, e sbocciano non appena questi è in grado di controllare e coordinare i muscoli necessari a esprimerle. Altrimenti bisognerà ripensare la comunicazione, la memoria e tutto il resto, magari in quanto proprietà emergenti dalla maggior o minore complessità dei cervello, come sostenevano i teorici delle reti riuniti in conferenza a Roma dall'1 al 5 settembre, e Mark Buchanan in Nexus, un saggio uscito pochi giorni fa per Mondadori.

Una volta accertato l'organo dei linguaggio, i ricercatori dovranno mettersi d'accordo sul perché i neonati dormono tanto, dalle 16 alle 20 ore al giorno, e i nasciturí ancora di più, e con un 50 per cento di sonno Rem (Rapid Eye Movements). La fase è contraddistinta da movimenti rapidi degli occhi, presumíbilmente da sogni (o almeno da immagini visive) e da una forte attività neuronale. Nell'adulto, il periodo Rem non supera il 15-20 per cento del sonno totale, ed è accompagnato da una riduzione dell'attività elettrica registrata dall'elettroencefalogramma; il che non accade nei neonati umani (e nemmeno in quelli di gatti e topi). C'è chi dice che il sonno Rem faccia pulizia, elimini gli stimoli immagazzinati dei quali il cervello non sa cosa fare garantendo ai neuroni un periodo di riposo e di recupero durante la fase non Rem. Altri ricercatori non sono d'accordo: il cervello passerebbe in rassegna le esperienze della giornata per elaborare le informazioni, come un computer, e registrarle al posto giusto nella memoria, oppure per risolvere problemi rimasti in sospeso. Ma nessuno ha mai dimostrato che dormendo le facoltà intellettuali aumentino (peccato, farebbe comodo), mentre è evidente che animali dormiglioni come l'ornitorinco e il bradipo siano poco svegli in tutti i sensi.

Stephen DuntIey, dell'Università Washington di Saint Louis, nel Missouri, ha un'altra idea. Nell'utero e nella prima infanzia, afferma, il sonno Rem serve «ai neuroni della corteccia cerebrale per costruire una solida macchina dei pensiero». Ha osservato che, nei topi neonati privati di sonno Rem, moltissimi neuroni muoiono in un processo chiamato apoptosi o suicidio cellulare. Ne deduce che nascituri e neonati «si dedicano freneticamente al sonno Rem» per tenere attivi i propri neuroni e impedire che subiscano la stessa sorte.