Corriere della Sera 12.9.03
LETTERE_AL_CORRIERE
risponde Paolo Mieli
Del Turco, il film di Bellocchio e la guerra di Piero
Piero Fassino ha ingaggiato la sua personale battaglia contro quell'«idra» tutta particolare che è la storia recente del Pci. Lui, meglio di altri, sa che le molte «teste» che la compongono sono tanti rospi difficili da vomitare. Teste che ricrescono anche quando il colpo inferto loro sembra quello definitivo. Prendiamo il Festival di Venezia come metafora di questa «guerra di Piero». Due film italiani in concorso. Uno, «Segreti di Stato», caricatura rivelatrice di un'idea della storia che non sembra morire mai: la strage di Portella della Ginestra opera di una congiura internazionale che metteva insieme Pio XII, la Cia, Iunio Valerio Borghese e la X Mas sotto l'abile regia del furbo ed eterno Giulio Andreotti e del cattivissimo Scelba. Applausi interminabili, segue dibattito.
L'altro, «Buongiorno, notte» che Walter Veltroni giudica «... opera bellissima e coraggiosa», e riconosce a Marco Bellocchio il coraggio di entrare in quel «buco nero» costituito dal rifiuto della letteratura e del cinema di guardare dentro la «bestia terrorista» e la sua genesi ideologica. Applausi interminabili anche a questo film. Al primo però è stato assegnato un informale «Leone d'oro» dei girotondini, con tanto di serata di gala al Sacher Cinema. All'altro, con il rifiuto del premio, una sorta di monito: quel mostro, quel «buco nero» non può essere vomitato tranquillamente ed in pubblico. La burocrazia parastatale che partorisce queste «cosacce» sopravvive a Cinecittà, si esalta nei Festival. Non sopporta, meglio, non tollera, una tensione artistica libera e coraggiosa che esca da questo codice di censura. E' una genia sempre politicamente corretta, attenta ai canoni, alle regole non scritte. Pronta a partorire con tranquilla intolleranza tanti borghesi, giovanotti e nonni, tutti piccoli piccoli, accomunati, però, da una gran voglia di farsi giustizia da sé.
So da che parte stanno Piero Fassino e Walter Veltroni. Ma allora, perché non dirlo? Perché non dire apertamente che quelle considerazioni sul Berlinguer di vent'anni fa vanno tradotte in una battaglia coraggiosa, aperta e senza cedimenti contro la dietrologia d'oggidì?
Ottaviano Del Turco
La Repubblica 12-09-03, pagina 1, sezione PRIMA PAGINA
LA POLEMICA
Il film su Moro e la retorica della trattativa
di MARIO PIRANI
Se un film è tutto politico - e quello di Bellocchio lo è anche quando evoca i sentimenti e le intime emozioni dei protagonisti - esso legittima, oltre ad una valutazione sotto il profilo dello «specifico filmico», per dirla con un grande teorico del cinema, Umberto Barbaro, anche un giudizio politico. A questo aspetto limiterò le mie osservazioni avendo tanti altri, più competenti di me sul piano critico, già scritto ampiamente sul valore di un' opera che legge il delitto Moro secondo l' ottica claustrofobica dei quattro carcerieri-giudici e della innocente vittima sacrificale. Il merito indiscusso di "Buongiorno, notte" sta, a parer mio, nell' aver rifiutato e vanificato la versione dietrologica di quel crimine che aveva viceversa ispirato sia precedenti cinematografici sia una interminabile proliferazione mass-mediologica, cara a una parte non secondaria della sinistra. Secondo questa interpretazione, reiterata quanto priva del minimo elemento di prova, la mano dei brigatisti venne guidata da qualche Grande Vecchio, da Kissinger, da Andreotti, dalla Cia, dai Servizi sovietici e dai nostrani, dal Mossad e chi più ne ha più ne metta, a turno impegnati a manovrare il terrorismo in odio all' incombente «compromesso storico». Tutto, pur di non riconoscere che il brigatismo e la scia di sangue che si lasciò alle spalle, andavano purtroppo ricondotti a quell' album di famiglia, esattamente individuato da Rossana Rossanda, da cui era scaturita una propaggine delle giovani generazioni di sinistra, intossicate dal fallace mito della Liberazione tradita e da altri cascami ideologici, una devianza estremistica parossistica.
I troppi che ne divennero preda credevano giunto il momento di scatenare la lotta armata contro i simboli dello Stato borghese e, ad un tempo, contro "l' opportunismo" della Cgil di Lama, del Pci di Berlinguer, della Dc di Moro. Non per niente si ispiravano a uno slogan esplicitamente anti riformista - «Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia!» - in cui poteva riconoscersi un bacino d' udienza più vasto e variegato degli stessi gruppi terroristici. Or bene, la radiografia di Bellocchio non lascia campo ad equivoci. I quattro di via Montalcini non hanno dietro segreti burattinai, se non i loro compagni e coetanei delle altre colonne e «direzioni strategiche» brigatiste. E sono loro e solo loro i «compagni che sbagliano», figli putativi che disconoscono e mistificano la loro ascendenza, rappresentata nella pellicola dagli anziani partigiani che cantano "Bella ciao". Tesi limpida e coraggiosa, una vera e propria sfida ad un universo politico e culturale aduso a darsi spiegazioni dietrologiche in luogo di quelle logiche. Meno convincente è l' altra caratteristica del film, da molti privilegiata come la più apprezzabile: quella di mostrarci i terroristi nei loro sentimenti, personali emozioni, incubi e sogni contraddittori. Ambigua operazione non perché Mario Moretti, Prospero Gallinari, Germano Maccari e, in primo piano l' ispiratrice dell' opera, Anna Laura Braghetti, non possedessero una loro umanità degna di essere scandagliata e in una certa misura bisognosa di pietas, ma per l' esito raggiunto. Forse occorreva il Dostoevskij de "I demoni" per tracciare un profilo verosimile anche degli odierni nichilisti e non è un caso se quel romanzo, apparso nel 1871, venne definito da Berdjaev, «non dell' epoca contemporanea, ma di quella futura». Comunque non è, neanche in questo caso, la resa estetica che mi induce a qualche perplessità ma il risvolto politico: quei carcerieri, giudici e, al termine, carnefici, finiscono per apparire allo spettatore, sovente ignaro o dimentico, come poveri diavoli, abitati sì da qualche idea balzana, ma pur sempre tormentati da dubbi irrisolti, in bilico tra un privato di buoni cristiani e un operare pratico segnato dalla P38 e dalla mitraglietta Skorpion. Un dramma compassionevole che culmina addirittura nella buona volontà, ancorché frustrata, di liberare il prigioniero, tanto che il sogno della Braghetti in proposito, si traduce nella pellicola in un Aldo Moro che apre la porta dell' appartamento in cui è rinchiuso ed esce a passeggio per le strade di Roma. Il che andrebbe anche bene se allo spettatore venisse in qualche modo fornita una postilla, ricordando che la vivandiera di via Montalcini, la quale oggi con encomiabile sincerità dice di se stessa «da quella persona lì sono lontana anni luce... ero inorridita dall' esecuzione ma è comodo dirlo adesso, a quei tempi non ho agito, ho immaginato di lasciar andare Moro ma non l' ho fatto, ho lasciato che accadesse e sono rimasta nelle Br», ebbene se si rammentasse che quella stessa Braghetti, due anni dopo, partecipò all' agguato sulle scale dell' Università di Roma che costò la vita al professor Vittorio Bachelet, ucciso perché simbolo del Csm di cui era vice presidente, come rivendicarono le Br. Questo gli spettatori non lo sanno. Poco male se il sogno salvifico che conclude idealmente il film - dove non si vede, invece, il momento della uccisione - fosse una licenza della fantasia. Ma invece non è così o solo così: quel Moro «libero», secondo il sogno della brigatista, è una ipotesi politica che viene riproposta, ancora una volta, come una soluzione possibile. Se non si è avverata la responsabilità non è di chi ha rapito, giudicato e ucciso la vittima dopo 55 giorni di sequestro, ma di coloro i quali non hanno accettato il compromesso, lo scambio richiesto dallo stesso Moro nelle sue strazianti lettere (le quali, peraltro, nella loro tragicità avevano una chiave etica opposta a quella delle "Lettere dei condannati a morte della Resistenza", che il film invece impropriamente richiama, come se quei martiri avessero anch' essi impetrato salvezza ai loro carnefici e non, invece, accettato l' estremo sacrificio in nome degli ideali di Patria e libertà). I "colpevoli" veri vengono viceversa rappresentati con le loro facce impietrite. Sono gli uomini della Dc e del Pci, del governo e delle istituzioni: Andreotti e Berlinguer, Ingrao e Zaccagnini, Cossiga e Lama che assistono muti alla messa funebre senza cadavere. E lo stesso Paolo VI compare in sedia gestatoria, simbolo di una liturgia vuota, visto che anche lui si è allineato al fronte della fermezza, quando, qualche fotogramma prima, viene mostrato mentre scrive ai brigatisti chiedendo loro, niente meno, di rilasciare l' ostaggio «senza condizioni». La tesi che il film fa propria non è nuova. Marcò quei giorni drammatici e cupi del ' 78 e trovò la sua espressione sia sul piano politico, da Craxi a Pannella e ai movimenti extra parlamentari, sia sul piano culturale fra quegli intellettuali che si trinceravano dietro la parola d' ordine «né con lo Stato né con le Br». Rivista al giorno d' oggi - ma per taluni anche allora - quell' idea di uno "scambio" che salvasse la vita dello statista rapito può apparire ragionevole mentre la fermezza, rappresentata in primo luogo, ma non solo, dalla Dc e dal Pci, sembrare disumana ragion di Stato. è proprio su questa falsa rappresentazione, psicologicamente suadente, che si è andata, del resto, elaborando la dietrologia del grande complotto, ordito ben più in alto, per assassinare l' incomodo leader del cattolicesimo democratico, il cui atlantismo non era inoltre del tutto inossidabile. Ma la situazione non si presentava affatto come gli "scambisti" preconizzavano. In via Fani la scorta era stata falciata e cinque agenti erano restati sul terreno. Si sarebbero dovuti graziare in partenza gli assassini ed, anzi, liberarne altri, incarcerati per precedenti delitti, in nome della salvezza di un uomo politico? Con quali effetti sui principi generali della Giustizia e sul morale delle forze dell' ordine, duramente impegnate quotidianamente in prima persona? Inoltre riconoscere le Br come interlocutrici di uno Stato arrendevole non sarebbe servito per fermare la spirale di attentati che mieteva vittime tra magistrati, poliziotti, insegnanti, giornalisti, dirigenti politici e sindacali ma solo per avallare, con una conferma clamorosa, l' allucinato teorema terrorista che presupponeva una riscossa rivoluzionaria del proletariato, risvegliato dall' azione di una avanguardia armata e combattente. Una tattica che pur quando adombrò confusamente, durante il rapimento di Moro, un possibile compromesso riduttivo, quale la liberazione di qualche carcerato, non preannunciava alcuna rinuncia alla lotta armata ma continui ricatti per indebolire lo Stato e le istituzioni, demoralizzare l' opinione pubblica, debellare la capacità di tenuta delle forze politiche. Una conferma la avemmo anche noi di Repubblica che, sotto la direzione di Eugenio Scalfari, tenevamo ben salda la linea della fermezza, quando, nel gennaio del 1981, dopo aver ucciso il generale Galvaligi, i terroristi rapirono il magistrato Giovanni D' Urso e lo sequestrarono per 21 giorni, annunciando la sua condanna a morte a meno che il nostro giornale non avesse pubblicato, in prima pagina, un loro lunghissimo e farneticante proclama, specificando persino le caratteristiche tipografiche da osservare. Si levò anche in quella occasione il coro dei propugnatori del cedimento, le tv e radio radicali trasmisero i numeri di telefono del nostro quotidiano e del domicilio del direttore, invitando i lettori a chiamare personalmente per ottenere la stampa, infine la disperata moglie del rapito si rivolse personalmente a Scalfari, sottoposto a una tensione personale lacerante, per ottenerne il placet. Ma il direttore scrisse un editoriale in cui, pur confessando di passare ore tra le più angosciose della sua vita, respingeva il diktat perché, accettandolo, una nuova catena di ricatti avrebbe avuto inizio e, da allora in poi, avremmo avuto organi di informazione «requisiti per ragioni umanitarie, a simboleggiare la potenza dei terroristi e a diffonderne i messaggi». La vicenda fortunatamente si chiuse bene: le Br si accontentarono di vedere la loro prosa su l' Avanti! e Lotta continua, malgrado la loro esigua diffusione, e due giorni dopo liberarono D' Urso. Abbiamo ricordato tutto ciò per dare contezza ai lettori di oggi di quale fosse l' atmosfera e quali dilemmi allora si ponessero, così che il messaggio trasmesso dal film di Bellocchio sia inteso in quello che, almeno a nostro giudizio, ha di buono e di non accettabile. Non solo la corretta interpretazione del passato ci ha, però, spinto ad esprimere la nostra opinione ma anche il convincimento che quei dilemmi, anche se con formulazioni in parte diverse, sono destinati a riprodursi. Il giudizio sul terrorismo, in Italia e nel mondo, seguita purtroppo ad incombere e sarebbe ipocrita non vedere come, anche oggi, la risposta resta sovente incerta e titubante, proprio perché si fatica a coglierne la radice inaccettabile, quali che ne siano le motivazioni: il massacro di uomini e donne innocenti, assunti come «simbolo» o come strumento di ricatto, da parte di gruppi politici e religiosi che si immaginano una realtà illusoria e perseguono deliri di distruzione. Come quei giovani delle Br, raccontati da Marco Bellocchio.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»