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La ribellione riuscita di Marco Bellocchio
di Livia Profeti
Roma - Buongiorno, notte non ha vinto il Leone d'oro. Una sorpresa che ha fatto notizia e che ha suscitato un mare di polemiche addirittura bipartisan. Il film infatti, fenomeno quasi unico, aveva messo d'accordo un po' tutti riscuotendo uno straordinario successo sia di critica che di pubblico.
Questo successo però non ha minimamente scalfito i due componenti italiani in giuria, il presidente Mario Monicelli e l’attore Stefano Accorsi che hanno difeso il loro giudizio giustificandolo con il motivo in fondo più ovvio, ovvero che a loro il film non era poi piaciuto granché, anzi, secondo Monicelli, forse Bellocchio non meritava nemmeno il premio di quart’ordine che, a questo punto chissà perché, gli è stato assegnato.
Può anche darsi che Monicelli e Accorsi abbiano alle spalle un’esperienza e una cultura cinematografica di livello immensamente superiore a quella della stragrande maggioranza degli altri critici, e una sensibilità non comparabile con la gente comune che affolla le proiezioni del film. E’ possibile però un legittimo sospetto, ossia che, al contrario, i due giurati non siano stati affatto all’altezza del loro compito.
Cose che accadono in Italia, dove non si riesce a difendere l’industria cinematografica nostrana nemmeno quando effettivamente se lo merita, e forse non è il caso di meravigliarsene più di tanto, mentre è opportuno segnalare che Buongiorno, notte a Venezia è stato insignito di altri premi quali Cinemavvenire
I ragazzi, ben più dell’esperto presidente di giuria, sono stati in grado di cogliere l’importanza di questo film, di intuirne l’attualità “globale” che va ben oltre il fatto manifesto di occuparsi di una storia italiana di trenta anni fa, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse nel 1978. Il grande interesse del pubblico, l’apprezzamento dei giovani, l’appellativo di “capolavoro” da parte della critica spingono a cercare di comprendere il perché questa ultima fatica di Marco Bellocchio abbia raccolto così tanti e variegati consensi.
Curzio Maltese, su La Repubblica del 5 settembre in un articolo dal titolo Quando il cinema riscopre la memoria, sostiene che «nel bellissimo film di Bellocchio … non c’è nulla di quello che ci s’aspetta». Pochissimi o nulli i tentativi di ricostruzione dei fatti, nessun giudizio politico o morale, «eppure il film di Bellocchio è un fenomeno politico importante».
Secondo il famoso editorialista quell’evento del ’78 ha segnato una «cesura nella cultura italiana»: dall’impegno politico e civile di impronta neorealistica al ripiegamento intimista delle storie personali e private. Dopo di allora, se il cinema si è ancora occupato di storie “italiane”, lo ha fatto rappresentando situazioni sociali antecedenti a quegli anni, «quasi che nelle radici dell’Italia contemporanea fosse calata una nebbia o un tabù».
Anche la produzione di Bellocchio è esemplare da questo punto di vista: dalla fine degli anni Settanta, esplicitamente con Salto nel vuoto, «comincia un’altra vita artistica. La politica smette di essere il terreno di ricerca della libertà». Il regista simbolo del ’68 si mette alla ricerca di un altro tipo di libertà, ed oggi, dopo quasi trent’anni, torna a rappresentare un fatto politico e sociale cruciale della storia italiana, ma ora lui «non è certo più il regista de I pugni in tasca».
Il clima ambiguo dell’epoca, la perdita del rapporto con la realtà dei presunti rivoluzionari, sono resi senza la preoccupazione del «politicamente corretto» del film di M. T. Giordana, La meglio gioventù, «ma piuttosto con la dolorosa consapevolezza di chi l’ombra della follia l’ha sfiorata e sofferta, vista nascere e crescere nelle fabbriche, negli uffici, nel compagno di studi, moderna malapianta di un’antica ossessione religiosa».
Per Curzio Maltese questo film dice che il suo regista non ha dimenticato un passato, e nemmeno lo ripropone come se non fosse, appunto, “passato”, bensì lo ha dolorosamente elaborato e per questo può separarsene. Il ribelle per antonomasia del cinema italiano questa volta porta sullo schermo il rifiuto ad un destino politico e sociale che per età e storia pur gli apparterrebbe: il suicidio di una generazione che, come dice sorprendentemente nel film l’interprete dello statista Dc, era più religiosa dei cattolici moderni, perché martire come gli antichi cristiani, forse ancor di più.
Ma non solo. Nella carrellata finale sui volti dei politici dell’epoca e nella rappresentazione rituale di Paolo VI che dispensa la sua benedizione non ci sono dubbi: ben poche scene cinematografiche sono in grado di rappresentare tanta gelida freddezza e ipocrisia. Il regista rifiuta la schizofrenia di una lotta armata che ha perso il rapporto con la realtà sociale ma contemporaneamente non si è certo convertito, non si è venduto al potere. Rimane un ribelle, ma ha liberato Moro. Alla rivolta fallita di quella generazione Bellocchio risponde con una ribellione riuscita. Non uccidere colui che cristologicamente sin dall’inizio “doveva” morire significa compiere il «vero atto rivoluzionario» attraverso il quale la porta del passato «si è chiusa per sempre».
Da un diverso punto di vista il figlio dello statista Dc, Giovanni Moro, ha dichiarato che «questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace d’accrescere la conoscenza della realtà». E questo, a sorpresa, è accaduto pur senza riportare alcun fatto che più o meno già non si conoscesse. Un fatto artistico «accresce la conoscenza della realtà» e contemporaneamente è «un fenomeno politico importante». Arte, conoscenza, fenomeno politico, mai sinora le tre cose erano state insieme.
Stando ai commenti Bellocchio è riuscito a realizzare un film che, pur utilizzando gli strumenti rigorosamente artistici della fantasia e dell’immaginazione, riesce a fornire elementi di “verità” rispetto ad un determinato evento storico, ed in tal modo diventa un fenomeno politico, ovvero esso stesso un evento che incide sulla realtà. Cerchiamo di tentare una prima analisi di come ciò sia possibile. Innanzitutto il film, pur occupandosi di un evento realmente accaduto, non è fotografia dei fatti, della realtà storica più o meno presunta, ma tende a fornire una rappresentazione colma di “senso”, ovvero di ciò che è umanamente significativo e importante.
Le immagini girate dal regista e quelle “reali” di repertorio si susseguono quasi senza distinzione, in un sapiente e misterioso montaggio dove la realtà assume i contorni della fantasia e la fantasia sembra reale. I telegiornali, le interviste, i funerali di Moro, perdono il loro originario carattere fotografico per acquistare una qualità comunicativa diversa, quella tipica delle rappresentazioni artistiche.
Alle scene inconsce - i sogni della brigatista Chiara che inventano una storia diversa da come si svolsero i fatti - lo spettatore può lasciarsi andare senza paura di perdere il rapporto con la realtà. La fantasia del regista diventa generosa: comunica la possibilità di un suo movimento attivo e vitale che può sopravvivere alla violenza dei fatti, la sua possibilità di non rimanerne schiava. Chi assiste può non rimanere inchiodato ad un destino immodificabile. Può sperare.
E’ forse la speranza il «fenomeno politico importante» di cui parla Curzio Maltese? Non so. E’ certo però che questo film ci comunica in qualche modo che è possibile ribellarsi senza morire e senza uccidere, e potrebbe essere questo il significato “universale” che affascina i giovani che amano questo film anche se parla di un passato che storicamente non hanno vissuto.
Marco Bellocchio, fratello di una generazione ribelle sfociata nella follia e nel suicidio, secondo Curzio Maltese ha sfiorato quella stessa follia, ma l’ha scartata, alla ricerca di un altro tipo di libertà. Il regista, in un’altra intervista, ha dichiarato che all’epoca dei fatti «stava mettendo in discussione se stesso, passando dall’analisi individuale a quella collettiva».
Da un’analisi individuale a quella collettiva. L’aggettivo “collettiva” ci suggerisce un luogo in cui l’inconscio ha abbandonato il confessionale di freudiana memoria - dove riceveva l’assoluzione per i propri peccati intrapsichici - e si è esposto ad un’interpretazione pubblica, alla ricerca collettiva su se stesso e sui suoi rapporti con il mondo. Non cosciente che si libera dalla bugia che lo voleva chiuso in se stesso, da nascondere come il male di biblica memoria, e si rivela fondato sul rapporto: sociale, storico, politico, in una parola interumano.
Sarebbe interessante chiedere a Marco Bellocchio il significato di questa quasi trentennale esperienza per la sua «ricerca di libertà», evidentemente riuscita, o quanto eventualmente abbia influito sulla possibilità dimostrata in questo suo ultimo film di coniugare con tanta leggerezza pubblico e privato, storia sociale e storia personale (il film è dedicato al padre).
Al regista i complimenti per questo film bellissimo, a noi gli auguri che, come auspica Maltese, con esso si apra per il cinema italiano un «passaggio verso un futuro diverso» nel quale arte, conoscenza, affetti e politica possano stare finalmente insieme. Sarebbe veramente un importante fenomeno.(martedì 9 settembre 2003)