sabato 13 settembre 2003

***l'Espresso n. 38, in edicola: l'intervista a Marco Bellocchio

(ricevuto da Tonino Scrimenti - **Tonino** http://www.clochard.net)

Buongiorno Marco
II successo di oggi. L'isolamento di ieri. Militanza politica e psicoanalisi.
Autoritratto di regista contro. Che finalmente ha conquistato il pubblico
colloquio con Marco Bellocchio di Alessandra Mammì


Marco Bellocchio ha vinto. Ha vinto tutto, tranne il Leone d'Oro. Ha vinto a Venezia travolto dalla commozione del pubblico e dalla standing ovation di giornalisti di tutto il mondo in conferenza stampa (cosa mai vista). Ha vinto in sala mordendo ai fianchi con le sue 170 copie di "Buongiorno, notte", l'incredibile "Hulk" che di copie, come si conviene a un colosso, ne aveva in giro almeno 400. Ha vinto conquistando anche chi ai tempi del sequestro Moro non era neanche nato e che al Lido gli ha regalato tutti e tre i premi delle giurie giovani. Ma soprattutto ha vinto su se stesso e sulla sua vocazione di regista stimato, ma isolato, appartato e complesso, denso e contraddittorio. Un autore di nicchia, insomma. «Un regista che ha scelto la strada più difficile priva di soddisfazioni spettacolari. Un cinema marginale rispetto ai circuiti commerciali, ma centrale rispetto ai rapporti fra gli uomini. Un cinema della penombra». Anno 1997: si chiude così il saggio di Sandro Bernardi nel "Castorino". Ma ora, superato il millennio, il biografo è smentito e il regista della penombra è accecato dalle luci dei riflettori.
Ecco raccontata da lui stesso, storia e trasformazione di un uomo che a sessant'anni si è rivelato al grande pubblico, è in piena e nuova giovinezza creativa e soprattutto non ha tradito né rinnegato niente del suo percorso.

Signor Bellocchio, che lei non vinca un festival non è una novità, ma le calche davanti alle sale per vedere un suo film non si erano mai viste.Come sta vivendo questa consacrazione?
« E' vero, non ho mai vinto un festival. E se non ho vinto neanche questo, credo la spiegazione più semplice sia che ai giurati il film non è piaciuto. Al momento delle giustificazioni o delle condoglianze mi è stato detto che era troppo italiano e difficile per i giurati stranieri. Strano, perché il film ora è invitato al Festival di Toronto, poi a New York e Londra».

La sta premiando il pubblico. Come lo spiega?
«In molti si avvicinano dicendomi che hanno pianto. Mi stupisce, non era nelle mie intenzioni farli piangere. Questa non è una love story. Un ex operaio di 55 anni ora sindacalista, mi ha detto che allora, all'annuncio del sequestro in fabbrica scoppiò un applauso. Ma ora vedendo il mio film non riusciva a trattenere le lacrime. Certamente la generazione nel fuoco è quella dei quaranta, cinquantenni. La loro commozione è comprensibile. Mi è più difficile invece spiegare l'entusiasmo dei giovani. Forse hanno capito che questo non è solo un film politico. È un film sull'assassinio di un padre. Ed è un film che dice come la separazione da un padre non passi attraverso il parricidio. Bisogna trovar la forza di riconoscerne l'esistenza per poi prendere la propria strada».

Oggi "Buongiorno, notte", all'inizio "I pugni in tasca". Di questo si è detto che è un film liberatorio, dell'altro che prefigurò il '68. Che rapporto c'è per lei tra i due film?
«Nei "Pugni intasca" il padre è assente e la liberazione è sinistramente accompagnata dalla necessità di assassinare la madre e il fratello. C'è la provocazione, la necessità di distruggere. Il film è dei '65 e fu detto che prefigurò il '68. Ma agli inizi quello fu un movimento pacifico, di resistenza passiva con i poliziotti che trascinavano via studenti inermi. Probabilmente anche allora l'interpretazione fu troppo politica. In "Buongiorno, notte" il padre è tornato, è presente, ha capacità umana. Liberatorio è riprendere la figura del padre, farla ricomparire per poi separarsene».

Ma a parte le spiegazioni politiche o psicoanalitiche, resta il fatto che lei è cambiato. È diventato più generoso verso il pubblico.
«Sento di avere raggiunto una maggiore libertà. Ho seguito delle immagini, più che delle tesi. Quando mi è stato chiesto di fare il film ho avuto dei dubbi. Ho capito che potevo farlo solo quando ho cominciato a vedere dei movimenti in un appartamento. Questa costruzione di immagini è una leggerezza conquistata a partire dalla "Balia"».

Non si riconosce più nella definizione di regista duro, contorto e difficile?
«Guardando all'indietro nel mio lavoro, trovo periodi intermittenti. Periodi di successo e periodi di crisi. Fu un successo "La Cina è vicina", ma poi arriva "Nel nome del padre", che pure amo molto, ma che è un film difficile, ideologico. Fu un successo "Marcia trionfale", ma poi mi sono appartato con il "Gabbiano" e il "Salto nel vuoto". Con "Gli occhi, la bocca" ho fatto addirittura un passo falso».

Perché un passo falso?
«Era un film doloroso, parlava del suicidio di mio fratello gemello. Non avrei mai dovuto riprendere il protagonista dei "Pugni in tasca" Lou Castel, anche se è un ottimo attore e ottima persona. "I pugni in tasca" bisognava lasciarlo dov'era. Aveva ragione Vincenzo Cerami che firmò la sceneggiatura del film. Lui voleva per quel ruolo Benigni a Troisi. Voleva introdurre un elemento grottesco in tanta tragedia. Ma io ero troppo coinvolto e ho fatto male a non dargli retta».

Isolato, appartato. Eppure lei ha avuto momenti di militanza politica, ha partecipato ai "Quaderni Piacentini" ha firmato con Silvano Agosti film militanti come "Matti da slegare".
«Sempre a modo mio. Il rapporto con i "Quaderni" e con mio fratello più grande Piergiorgio è stato fondamentale per la mia formazione culturale. Andavo alle loro riunioni, ero amico di Grazia Cherchi e Goffredo Fofi, vivevo con loro. Ma la mossa diversa è stata quella di allontanarmi dal Nord e trasferirmi a Roma. La cosa non fu vista bene. Allora Roma era guardata con sospetto dall'inattaccabile moralismo dei "Quaderni" che non perdonava neanche a Pasolini di scrivere sul "Corriere della Sera", "il giornale dei Padroni". Roma era luogo di intellettuali troppo compromessi con il potere. Per me fu invece un momento di apertura. Mi ero iscritto al Centro Sperimentale avevo rapporti con registi internazionali, ero nel mezzo di una realtà in movimento. Ma anche lì finii per trovarmi in qualche modo isolato».

Come mai?
«C'era un grande entusiasmo per la Nouvelle Vague. Godard era un nume. Ricordo che Bernardo Bertolucci confessò di essersi addirittura sentito male per l'emozione quando lo incontrò. Io a Godard ho sempre preferito Bresson. Guardavo con ammirazione il più classico cinema francese, il realismo americano, Antonioni e Visconti».

E "I pugni in tasca" come arriva?
«Ero appunto isolato e lasciai Roma per Londra. Ma anche lì vivevo a modo mio. C'erano i Beatles e i Rolling Stones? Non me ne sono neanche accorto. Andavo all'Albert Hall e ricordo un concerto di un giovanissimo Pollini. Tornato in Italia volevo a tutti i costi sapere chi fossi. Non volevo seguire la trafila di fare il terzo, secondo e poi primo assistente alla regia. Se ero un regista dovevo tare un film altrimenti tornare alla pittura, cambiare mestiere. Avevo scritto il film e cominciai a cercare i soldi. Naturalmente non li ho trovati. Chi nell'Italia anni Sessanta poteva finanziare un film che parlava dell'assassinio di un fratello e di una madre cieca? Chiesi aiuto a Piergiorgio, che disapprovava completamente il progetto, ma che per amor fraterno decise di sostenermi. Così l'ho autoprodotto: un po' di soldi di famiglia e un mutuo della Banca Commerciale ottenuto grazie a lui.

E fu un successo travolgente.
«Anche troppo. Il film esplose, fece il giro del mondo, e io ne fui completamente disorientato. In qualche modo ne uscii più appartato di prima. Non entrai né allora né mai nella grande famiglia del cinema italiano ed è troppo tardi per farlo adesso».

A isolarla ancora di più non ha contributo il suo rapporto con la psicoanalisi e Massimo Fagioli?
«Molti di quelli che parlano male di Fagioli non hanno mai letto i suoi libri. Io non rinnego l'eccezionalità di quella ricerca a cui oggi fanno riferimento psichiatri di tutto il mondo. Ai tempi del "Diavolo in corpo" si parlò di un Bellocchio sopraffatto da Fagioli. "L'espresso" mi dedicò addirittura una copertina dal titolo "II diavolo in testa". Se oggi sono quello che sono è anche grazie a un'esperienza che, come vedete, non mi ha né soffocato né distrutto».

A proposito del premio mancato, Bertolucci ha detto: «Siamo due vecchi elefanti feriti». Condivide?
«Bernardo parla così. È un poeta. Ma nell'aggettivo ferito sinceramente non mi riconosco. Mi ha commosso però la sua solidarietà. Vuol dire che ora abbiamo altre cose a cui pensare piuttosto che polemizzare fra noi ».

E il sostantivo elefante?
«Lo accetto. Ma solo nell'accezione di un animale molto, molto longevo»