martedì 11 novembre 2003

Avvenire, il quotidiano dei vescovi e il terrorista

L'Avvenire, giornale della Conferenza Episcopale Italiana 11.11.03
L'ex terrorista (componente dell'esecutivo delle Br e del commando di via Fani) si rivolge a chi oggi pensa di ripetere quella esperienza: «Usate l'intelligenza per costruire, non per distruggere»
Bonisoli: «Giustizia non si fa con la violenza»
Segio? Non possiamo essere, anche da reduci, sempre al centro del dibattito. L'appello di Ichino ai terroristi a guardarsi in faccia apre una strada importante»
Da Milano Angelo Picariello


«Che dolore e tristezza rivedere altri che di nuovo pensano di far giustizia uccidendo». Franco Bonisoli era il più giovane della direzione strategica e del comando esecutivo delle Br. Ma oggi non ha più voglia di far parte di direzioni o esecutivi, fossero pure democratici. Avendo a fatica ripreso contatto - nonostante l'ergastolo - con la sua esistenza, cerca solo di combinare qualcosa di buono per sé e gli altri, dopo aver seminato tanto male. Nel suo "curriculum", oltre ad Aldo Moro, c'è anche il ferimento di Indro Montanelli, ma poi fece in tempo a diventargli amico. E quando morì gli riaprirono a tarda sera la camera ardente: entrò, si soffermò davanti alla bara e lasciò un messaggio sul registro: «Grazie Indro. Grazie di cuore, di tutto. Con affetto, Franco Bonisoli». Se oggi ha scelto di rompere il silenzio, Bonisoli, è solo per tentare di aprire il dialogo con chi rischia di nuovo di seminare morte per niente, «mentre ci sono tanti modi per praticare in concreto la giustizia».
L'incubo delle Br sembrava archiviato. Che cosa ha provato quando, dopo l'omicidio D'Antona, ha rivisto la stella a cinque punte?
Un pugno nello stomaco. È stato un ritornare indietro con la mente a situazioni che credevo definitivamente chiuse.
Il recente film di Bellocchio sul caso Moro descrive un conflitto drammatico che sarebbe scattato in voi, fra la durezza dell'ideologia e l'umanità dello statista. Può confermarlo?
Quando sei in una dimensione mentale di guerra attui una scissione rigida tra buono e cattivo. Il cattivo diventa il nemico, demonizzato e deumanizzato. È l'unico modo per evitare che il senso di colpa e il dubbio prevalgano. Il film però mi è piaciuto, perché apre una riflessione anche sulla dimensione umana di quella vicenda.

Il ministro Pisanu ha definito il terrorismo una sorta di scelta religiosa, sia pur impazzita…
Le racconto un episodio. Nel 1984, dopo la rottura col mio passato, ritrovai una mia ex professores sa che anche lei aveva fatto una scelta totalizzante, sia pur molto diversa: era diventata suora di clausura, poi missionaria in Rwanda e infine in una comunità per tossicodipendenti presso Reggio Emilia. L'ho incontrata che era a letto con un tumore… mi ricordo il sorriso e la gioia che aveva nonostante le ossa frantumate per la metastasi. Ho ancora le lettere in cui mi rispondeva in carcere: «Per me è Dio, tu lo chiamavi comunismo, ma la spinta iniziale era la stessa». Con una grossa differenza: lei ha fatto una scelta di donazione della propria vita compiendo azioni di bene; la nostra scelta purtroppo, per l'ideologia rivoluzionaria cui ci eravamo rifatti, prevedeva lo scontro col nemico. Che andava eliminato.
Ma da voi "ex" non sarebbe stata auspicabile una presa di distanza più netta dalle nuove Br?
Le dichiarazioni mie come di altri sono sempre state inequivocabili. Ma in quella dimensione mentale, loro come noi, ascoltano solo chi gli dà ragione. Se 10 mila partigiani ci dicevano «siete pazzi» e ce n'erano due che ci raccontavano cose mitiche, noi ascoltavamo loro, gli altri 10 mila erano vecchi rimbambiti diventati borghesi. Così resti nel tuo isolamento. È vero che nel '78 noi eravamo un riferimento, almeno nell'area dei movimenti. Ma da lì a pensare ad un fenomeno di massa...
E oggi?
Mi sembrano ancor più isolati. Mi ha colpito che al funerale di Galesi non ci fosse nessuno. Vuol dire che le loro relazioni sono tutte dentro il gruppo.
E si arriva ad uccidere per dare risonanza ai propri proclami.
La logica è: «Uccido per esistere». Uccidi D'Antona, o Biagi - persone che escono di casa tranquille, senza scorta, quindi l'azione anche sul piano militare è semplice -, ed esisti. Poi fai 25 pagine di volantino buttate giù leggendo giornali d'economia e infarcite di ideologia, i giornali ti danno spazio, tutti discutono, si spaventano. E hai ottenuto l'obiettivo.
Catalizzare l'attenzione...
È un errore cruciale dare tanto spazio. Quando sei chiuso nel gruppo pensi: «Ho messo in crisi lo Stato, ce l'ho fatta», diventa uno stimolo, ti crei il mito. Penso vada data maggior attenzione, invece, alla ricerca del recupero di queste persone. Il professor Pietro Ichino, a sua volta potenziale obiettivo delle nuove Br, aveva avviato un importante e coraggioso approccio, invitando pubblicamente sul Corriere della Sera i nuovi terroristi a recuperare la propria umanità. Seminare con impegno in questa direzione può dare buoni frutti in un domani non troppo lontano. D'altronde noi oggi siamo l'esempio che un cambiamento interiore è possibile.
Brigatisti isolati, lei dice. Ma su Internet ci sono frasi del tipo «onore al compagno Galesi»: il rischio che nell'area antagonista scatti l'imitazione c'è. Lo sostiene anche Sergio Segio.
Certo. Ma gli appelli fatti da noi "ex" ho l'impressione che servano più che altro a tranquillizzare l'opinione pubblica, a far belli noi stessi. Nell'intervista di Repubblica a Sergio Segio vedo il rischio di voler essere di nuovo al centro del dibattito come "reduci" che, pensando di incidere sul corso della storia, bacchettano qua e là. No, io mi limito a dare testimonianze della mia esperienza e solo di quella. Soprattutto ai giovani. L'ho scelto come forma di risarcimento.
Che effetto le fa il perdono?
Dopo la chiusura col passato, ho cercato un dialogo di comprensione umana con chi era stato da noi colpito, evitando forzature. Penso che il perdono sia una cosa molto intima. Non l'ho mai chiesto esplicitamente, ma ho imparato che è la lezione di vita più grande che si possa ricevere: non ti scioglie il senso di colpa, ma ti evidenzia l'inutilità di quel che hai fatto. E ti spinge a cercare la strada per la riparazione.
È giusto parlare di "Nuove Brigate Rosse"?
Sì, di fatto sono una ripetizione di quel che provavamo a fare noi con modalità nuove. E, come dicevo, ancor più sganciate dai movimenti.
Segio dice invece che il collegamento c'è, con gli antagonisti.
Non sono in grado di dare una valutazione. Non ho dati concreti. Penso però che bisogna stare molto attenti a parlare di «collegamenti», perché possono partire deleterie quanto inutili cacce alle streghe. Come il puntare il dito sul centro sociale "Blitz" per poi scoprire che è chiuso da 10 anni.
Ma che cos'era per lei la lotta armata?
Era una grande ansia di giustizia. Cercavo davvero l'eden terreno.
E oggi?
Faccio la mia vita come tutti. Ho avuto la fortuna di poter mettere a disposizione di altri che possono averne bisogno quel che ho imparato, anche drammaticamente.
Che cosa direbbe a chi rompe le vetrine o manda i pacchi-bomba?
Che ci sono mille forme più utili per migliorare la società e per lottare contro le ingiustizie, senza usare la violenza.
Lo direbbe anche ai nuovi Br?
Se potessi incontrarli direi di usare l'intelligenza e le proprie capacità per costruire, non per distruggere. Alla Lioce, o a Morandi, direi che potrebbero essere una risorsa per fare delle cose utili. Ho scelto di parlare solo per cercare di essere essere d'aiuto in questo senso: vedendo dove sono arrivato io, dico ad altri di fermarsi prima.
(ha collaborato Stefano Totoro)