martedì 11 novembre 2003

la mostra di Palazzo Forti a Verona
"la creazione ansiosa", fino all'11 gennaio

L'Arena, Verona Lunedì 10 Novembre 2003
Riprendiamo il cammino nella «creazione ansiosa» a Palazzo Forti
Tra follia e disperazione il soffio del surreale magico
Da Odilon Redon a Francis Bacon passando per Böcklin
di Liliana Tedeschi


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È dall’occhio assoluto di Odilon Redon, quel suo disegnare iperborei inifiniti, è dal suo straordinario soffio del surreale magico che riprendiamo il cammino nella grande mostra di Palazzo Forti «La creazione ansiosa, da Picasso a Bacon». Girovagando senza logica - quella di Giorgio Cortenova è altissima e ci permette di uscire dalla collocazione storica - tra la follia e la disperazione creativa di questi meravigliosi artisti. Nell’ordine del più grande interrogativo umano. Perchè non possiamo vivere senza il dolore? Non è una domanda pertinente in una mostra. Forse non lo è da nessuna parte. Sono tornata a Palazzo Forti più volte, per vederla. Palazzo che diventa così un luogo della memoria, un sostituto della nostalgia. E non soltanto un Museo. L’Espressionismo più divelto e angoscioso e i suoi artisti sono i miei migliori amici. «L’emergenza della psiche» è la sezione in cui si trova Redon. Con cinque litografie fra le più celebri. Citeremo per tutte «Ioannes, Io», la prima coscienza del caos (1896). Quell’orrore che non è neppure disperazione in «Antonio, qual’è la fine di tutto ciò?», quelle figure nere e dissolte. E l’enigmatico «Buddha» (1895). Quei neri incisi di tristezza. E i bianchi luminosi di pura luce.
Accanto non poteva esserci che Munch. Nella delineazione conoscitiva dell’assoluto della depressione. La «Malinconia» (1902). Seconda solo alla celebre «Melanconia» da Dürer.
Solo che qui il concetto così discusso di «moderno» scarta ogni riferimento astrologico o esoterico. E anche se sono presenti in mostra «Due esseri umani», con una particolare costruzione formale, a quell’angosciante «Il bacio» (1902), quella che ci ha colpito per quelle figure nere collocate nell’avventura di uno spazio chiaro e la progettualità di un simile momento, è la «Morte nella camera della malata», unica anche nel mondo di Munch (1896). Perchè ad esempio in «Gelosia» dello stesso anno si affaccia un delizioso decorativo liberty.
Ma il percorso di una mostra- è un mio concetto strettamente personale- può essere variato secondo la propria emotività. Noi non vogliamo guardare, conoscere, vivere l’opera d’arte. Noi rischiamo con l’opera d’arte. Dobbiamo molto a Cortenova che dividendo in sezione questi capolavori, rispettandone in un certo senso l’attimo della nascita, ci ha permesso questo e molte successive considerazioni. Ne «Il brivido della divisione» scomoda con Heidegger i nostri più ricchi ricordi filosofici. Così non si può amare quella «Villa italiana in primavera» di Böcklin. Di una sesibile solitudine post- romantica (1890). Da un profondo classicismo visionario a quello spazio- giardino- orizzonte, «Terrazza, giardino presso Meissen» di Max Klinger, quella tenebra «La notte» e piccole incisioni di De Chirico, architettura, simbologia e un manichino in «La nemica del poeta». «Voglio essere per terra, nell’erba». Qualcuno l’ha scritto. E l’erba è come un profumo della natura. «Le bambine» di Casorati (1906). Un mazzo di trine, merletti, piedi deliziosamente calzati, occhi, visi, incanto.
È quasi strano trovare in questa stessa sezione il cadaverico horror raffinato di Alfred Kubin. E i mari di Strindberg. Quell’apocalittica «Nebbia» (1892). Meno violenta nell’assemblaggio tra la realtà e l’onirico. E «Quadrivio» di Silvano Girardello. «Il vecchio e il cane» (2001) dove la violenza della natura conserva il fascino dei primordi. È in fondo da questa sezione che il discorso si dilata e prosegue con molte ramificazioni. «La scultura», ad esempio. il surreale, il senso magico di Novello Finotti (recentissimo Premio Masi) con «Levitazione». Un immobile corpo sospeso a mezz’aria, un viso che nasce dal nulla. Che si china su un altro viso. Il soffio del corporeo, della vita e della non vita. Ricordi di segni egizi, che noi abbiamo precisi nella memoria. Da alcune sue mostre del passato. Ancora per la scultura «Il naso» (1947) di Alberto Giacometti (New York) e «Il busto» (1963). Assieme alla follia pittorica di Viani ne «La crisi del soggetto» o «Ritratto di Annette», sempre Giacometti, inciso nella pietra. Di Germaine Richie «La mantide», filiformi corpi di plasticità endemica.
Dove i capolavori. «La narrazione impossibile». Il rivoluzionario della forma. L’inventore di ogni frantumazione. Compresa la parola, il linguaggio visivo o meno, il colore, il segno. Picasso. «Donna Piangente». «Donna in poltrona», quel nero su forti colori che assorbe figura e limite. «Testa di cavallo». Inconfondibile, così celebre. Che richiama «Guernica».
Che dire della nevrotica rappresentazione umana di Max Oppenheimer nel «Ritratto di Egon Schiele» (1910). E le «Maschere» di Ensor, sottili incantati coriandoli umani. Un riso ineludibile. «La creazione ansiosa» che con Egon Schiele nel manifesto e nel catalogo della mostra va oltre la follia. Circola la paura di tradurre in segni, diagrammi, esasperazioni, dita che esprimono. La follia che guarda se stessa nel «Ritratto di Arnold Schonberg» (1912). Un assurdo razionale nell’assurdo determinato. L’azzeramento di ogni divisione sessuale in quello splendido «Madre e bambino» (1912), un grande Egon Schiele. Nel 1946 Francis Bacon dipinge «Omaggio a Van Gogh». Incontra Arles, il Ponte di Trinquitalle, la stanza gialla, i girasoli. È press’a poco in quest’epoca- come scrive Cortenova- che nella mostra antologica di Parigi (1947) appare un saggio, «Van Gogh, il suicidato della società». A tanti anni di distanza nell’enigma dipinto da Bacon la società attuale si riconosce. Un dolore estremo tradotto in spazio forma. Il senso di cieli arroganti, di dolcissimi prati, di fiori meravigliosi, inesistenti bellezze, di solitudini elaborate.
Ogni tanto, nelle grandi sale- video a tutta parete, immagini dilatate, la forte pervandenza del suono. Di Vanessa Beercroft (1997) «Performance galerie». Quella stanza che forse non è una stanza. Quelle donne che forse non sono donne. L’uguale perfetto che distrugge l’alterità. Quel silenzio che è colore. E in parte assenza di colore. «Donna su un letto» di John De Andrea. Quell’imbarazzante nudità! Vera o falsa, anche adesso, oltre il terzo millennio. Ma una volta le mostre non le allestivano anche per suscitare scandalo!
«Azione IV» di Rudolf Schwarzkogleri. La frantumazione non solo dell’immagine ma i risultati a fotogrammi e interazione progressiva della violenza. E quella straordinaria climatizzazione pittorica dell’anima, di un volto o dell’essere, di Carlo Guarienti in «Senza titolo». La solare realtà costruita nei minimi dettagli di Cremonini. «Tela incollata» di Tapies. Insormontabile come un muro. «L’albino» di Jean Dubuffet. I rossi materici di Burri, metope solcate da segni. E poi il ritorno a una quasi sperduta dolcezza. Dopo l’allucinante Baselitz. «Il porto» (1930). Con quella grande nave. Destinazione di tutti i sogni e di tutti gli incontri. Di Franz Radzwill e dello stesso (1929), un cielo di nuvole e incanto. Una grande villa. «Villa italiana in primavera». Un punto fermo, passaggi dietro le finestre o rimpianti o qualcuno che scrive.
Torno indietro a rivedere quel ritratto enigmatico di Bacon. «Omaggio a Van Gogh». La pipa. Un quadro appeso ad un muro verde bosco. Non un volto. Non un vero volto. Noi, chi siamo. Ma poi recupero la villa di Radzwill. Davanti ha un qualcosa che si può scambiare per un lago o un fiume e invece è un qualcosa che difende il mistero, la privacy. L’inesistenza del magico o la trascendenza. Il Muro blu.
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