mercoledì 19 novembre 2003

Furio Scarpelli su Repubblica
anche a proposito di Marco Bellocchio

La Repubblica 19.11.03
Incontro con il grande sceneggiatore di capolavori come "La grande guerra". Ci parla del cinema di oggi e di come nasce un film popolare
"Per raccontare belle storie tenete l'orecchio a terra"
"Nanni Moretti ha occhi e cuore aperti. Giordana, Bellocchio e Milani sono autori che guardano dalla finestra non allo specchio"
"La fiction tv? Montalbano mi piace, ma ci sono storie con poliziotti che sono fanciulle attraenti ma mancano di verità"

di PAOLO D'AGOSTINI


ROMA - «Non ci siamo incontrati per parlare di politica», si schermisce. Il cinema, lei insegna, nasce da ciò che ci accade intorno. E la novità italiana è la ritrovata passione nello stare vicini alla vita. «Chi comincia a scrivere per il cinema deve sapere che cosa lo deve animare. Non solo scrivere un testo che diventerà film: distaccato da ogni responsabilità. Vengono fuori solo frescacce. Gli spunti devono venire dalla società. La domanda da farsi non è che film potrebbe venir fuori dal tale testo, ma dove nasce quel testo che dovrebbe far venire fuori un film. Lo spirito che una volta ispirava il cinema era semplice, lo si poteva condensare in poche parole: l'osservazione del reale, un nuovo spirito ricostruttivo, l'ironia unita alla drammaticità. Un insieme che si è espresso in tanti modi: commedia, neorealismo, i filoni di genere».
Il Premio Solinas per la sceneggiatura è servito?
«I testi di quest´anno fanno pensare che chi scrive ha capito che il modo lo stile il tono sono fondamentali. La vicenda in sé si compra dal tabaccaio».
Sua la polemica contro il vizio del «cinemismo». Il cinema italiano è guarito?
«È una passione che i giovani continuano ad avere. Il giovane che vuole scrivere o diventare regista al quale domandi perché, risponde "perché mi piace il cinema". Ma si deve pretendere di più».
A partire da "Pane e tulipani" si è di nuovo consapevoli di cos'è un cinema popolare.
«È vero e noi vecchi siamo rimasti piacevolmente sorpresi dal rinascere di ispirazioni semplici, che attengono alla socialità, alla politica. E ci fa piacere che siano anche successi di pubblico. Lo sbandamento da egomania cinemistica sembra interrotto». Un processo che è stato colto dai senatori come lei. L'adesione di Risi a Muccino, o quella di Monicelli a "La stanza del figlio". La sensibilità del veterano sente al volo che qualcosa si muove.
«In più ognuno di noi ha il proprio strascico di penne di pavone. Molti provano una soddisfazione comprensibile: allora quando io facevo il mio cinema non sbagliavo. Condivido ma non esibisco. Non mi sento maestro nel misero ricordo di quel poco che si è fatto, non mi dispiace che non venga gettato nella monnezza».
Lei ha sempre sottolineato l'importanza del pensiero che deve essere a monte.
«Personale e collettivo».
Ma dà l'impressione di sminuire il grande cinema popolare di cui è stato protagonista.
«No. L'ispirazione si poteva dire in poche parole ed era eccessivamente concreta, ma al di là delle singole personalità dei registi cui si aggiungevano indegnamente quelle degli sceneggiatori si è creata un'identità d'insieme. Quando manca l'identificazione tra un certo numero d'autori, che siano pittori musicisti scrittori o registi, manca quello che lei chiama pensiero. E così ognuno si attacca al proprio tram o al proprio ego. Nanni Moretti: lui il cuore e gli occhi li ha sempre tenuti aperti».
Esempi di grandi film cui ha partecipato lei.
«Non so se ho partecipato a grandi film».
"La Grande guerra"?
«Intanto c'era un racconto di Maupassant che ci ha eccitati, me Age e Vincenzoni. Naturalmente c'era al di sopra Dino De Laurentiis che telefonava per dire "oh, guardate che gli attori sono questi". E poi: "oh, guardate che deve far ridere". Dimenticata la telefonata, leggevamo cose che non avevano niente a che fare col cinema, Emilio Lussu di "Un anno sull´altopiano", le copertine della Domenica del Corriere. Una grande regola: non pensare a come verrà cinematograficamente».
L'opposto delle enfasi tecnicistiche alimentate dalla fiction tv.
«Certo, si vogliono degli schiavi al remo che producano metraggio. Il punto di partenza deve essere qualcosa che ha valore in sé. Vediamo Giordana, Bellocchio, Il posto dell'anima di Riccardo Milani: distolgono l'autore dallo specchio a favore del guardare dalla finestra».

Ma la tv può essere una scuola?
«Qualsiasi cosa nasca per essere narrata, dalla favola della nonna alla barzelletta, se dentro c'è l'anima è materiale buono. Purché si sia capaci di mantenere la nostra componente infantile come Einstein o Mozart. Mi piace molto Montalbano. Ma vediamo delle storie dove il commissario può essere una fanciulla attraente, che mancano di verità. La forza della verità è impalpabile ma potentissima. Il successo di certe commedie che noi abbiamo fatto era questo: avevamo l´orecchio sul selciato, e lo spettatore lo sentiva. Anche se poi veniva tutto affidato all'immaginazione di Sordi. Ogni volta che torni a mettere l'orecchio sul selciato e senti il pulsare del cuore di quello che c'è dentro, è più difficile sbagliare. Ecco quattro cinque sei film delle ultime stagioni che si riferiscono al battito del cuore del mondo e non del proprio».
Sordi: che cosa c'era dietro tanta adesione popolare?
«Qualcosa di profondo e importante. Di piacevole e di brutto dell'animo del cittadino mondiale. Un film al quale io non ho partecipato che era "Un americano a Roma", in cui faceva un motociclista del Kansas City, dileggiava l'americanismo dei giovani. Cosa sacrosanta che oggi nessuno ha il coraggio di fare. Era la parodia di un personaggio drammatico americano che sarebbe stato fatto l'anno dopo: "Il selvaggio" con Brando. Come se un film serio si fosse ispirato alla presa per il culo di Sordi. Questa sensibilità è il cuore segreto che lo univa a tante persone».
La Roma di Sordi era la stessa di Pasolini e di "Poveri ma belli": una varietà e una ricchezza andati perduti. Che cosa è successo?
«Una divisione che non deve avvenire: fra dramma e ironia. Come se si potesse cuocere gli spaghetti separando il fuoco dall´acqua. Se levi l'ironia diventa falso, se levi la tragedia diventa barzelletta».
"La meglio gioventù"?
«Un bel tuffo nel reale. È un indizio. L'Italia passa per essere un paese di superficiali. Ma nel cinema non lo siamo mai stati. Non si può dire quello che si può dire dei governanti attuali: che sono degli scalzacani».
Era prevedibile l'esito del film?
«L'incitamento alla memoria è servito. È il film di un vero narratore».
"Buongiorno, notte" di Bellocchio, "I sognatori" di Bertolucci, "La meglio gioventù": raccontano la memoria ma proiettata sul presente.
«Quella del ricordo è una necessità attuale. Sapere che cosa è accaduto al Portico d'Ottavia o nel '68. Bellocchio poi lo amo proprio per come vede personalmente le cose e per una specie di santità infantile. Pretendere da lui un documento storico non si può. Non è Oliver Stone. E non sono d´accordo con Monicelli: lui quando mai si è preoccupato che all'estero non lo capissero?».