martedì 25 novembre 2003

l'articolo di Repubblica su Niccolò Ammaniti,
citato al lunedì

La Repubblica domenica 23.11.03
Lo scrittore bambino che gioca col bestseller
cinquecentomila copie per "Io non ho paura"
L'odissea contemporanea inventata con Yehoshua
Il romanzo tradotto in ventinove paesi
Il successo rassicura ma può farti male: il tuo mestiere è osservare gli altri, non stare al centro della pista
Ho cominciato a comporre delle storie perché mi sentivo un fallito. Così la scrittura mi ha salvato
di SIMONETTA FIORI


Venezia. Lo scrittore da cinquecentomila copie, che nel mondo viene letto anche in cinese e in russo, passeggia sbilenco lungo il molo di Fondamenta Nove, cappotto di fustagno verde-biliardo e berretto calcato in testa in stile Shining. Da un mese Niccolò Ammaniti vive in un palazzetto veneziano dal fascino un po´ cupo, grandi specchi bruniti a coprire le alte porte ora murate, che aprono a chissà quali mondi misteriosi. «Qui lavoro bene, lontano dalle seduzioni di Roma. Ho bisogno di prendere le distanze dai luoghi e dalle persone che conosco. Mi sveglio presto, guardo un film, gioco con la playstation, leggo. Poi mi metto a scrivere fino al pomeriggio, in un dialogo continuo con i personaggi delle mie storie. Se non fosse per questo sottofondo molesto…». Si alza e dalla finestra indica una scuola elementare dietro il campiello. «Sai, i bambini…». Ma come, proprio lui, il cantore dell´infanzia, l'inventore di fantastici mondi di ragazzini sospesi tra stupore e orrore, l'autore del fortunato "Io non ho paura" (Einaudi Stile Libero), che con le avventure del piccolo Michele Amitrano-Tom Sawyer ha smosso i lettori di ventinove paesi, dalla Finlandia al Brasile, dall´America al Giappone, dalla Turchia a Israele, dalla Thailandia all'Australia, proprio lui detesta le creature che così bene sa raccontare? «In realtà io i bambini li odio», confessa con divertimento. «Se li scelgo come protagonisti delle mie trame è perché attraverso i loro occhi si può scoprire il mondo. E grazie alle loro fantasie si può reinventarlo. È un tema antichissimo, nel romanzo. Mark Twain e Dickens, ed anche Stephen King, l'hanno sperimentato prima di me».
Dei bambini sa penetrare paure, disillusioni, rituali feroci, ma anche l'epica dell'amicizia con le sue regole d'onore, perché lui bambino lo è stato a lungo. E forse, a trentasette anni, un po' lo è ancora. «Per me quella stagione straordinaria, nutrita di invenzioni oniriche, mostri, fantasie macabre, è durata per molto tempo, forse più del dovuto». Una quieta infanzia borghese, in una bella casa del quartiere Trieste, con il papà Massimo celebre psicoanalista e la mamma Fausta architetto, e però popolata di creature notturne e terrifiche, zoombi, giochi sepolcrali, l'ossessione del buio e dell'ultimo respiro, l'idea di dissoluzione così bene incarnata dal "Principe Infelice", il racconto di Oscar Wilde scelto come livre de chevet. «A Carnevale mi piaceva travestirmi da morto. E la sera, nell'ombra che avvolgeva la camera da letto, mi sentivo assalire dai mostri, contro cui avevo la mia arma segreta: immaginavo di imprigionarli nella pancia perché non raggiungessero la testa». Gli stessi esorcismi praticati dal giovane protagonista di Io non ho paura. «Scrivendo si ricordano le cose dell'infanzia. Di quel mio incubo ricorrente non avevo mai parlato con nessuno finché non l'ho riversato nella scrittura. Paure diffuse, che fanno parte del Dna dell'infanzia. Chi non ha mai scambiato il vestito gettato sulla sedia, rischiarato da un raggio di luna, con il profilo arcigno d´una strega? È da quel materiale fantastico che nascono le mie storie, come l'ossessione di Lazzaro che si risveglia e azzanna Gesù sul collo ingiungendogli "lascia stare i morti". Forse il mio libro è piaciuto anche per questo: dei bambini provo a raccontare tremori universali, non molti dissimili dalle fantasie popolari raccolte esemplarmente da Calvino nelle Fiabe».
Tra le sue paure, più personali, c'era quella di non capire bene quale mestiere facesse il padre neuropsichiatra infantile. «Riceveva a casa tanti bambini, che però io e mia sorella Luisa avevamo il divieto di incontrare. Così, una volta, ci nascondemmo dietro una poltrona. E lo vedemmo con alcuni giochi colorati in mano, davanti ai suoi piccoli pazienti assorti. Ne fummo sconvolti: papà faceva il baby-sitter! E non aveva il coraggio di dircelo…». Risolto l'equivoco, la vita non fu più facile. «Dal genitore psicoanalista ti aspetti molto più che da un padre normale. Pensi di essere capito in modo speciale. E invece il mio era un papà come tutti gli altri, amorevolissimo e dunque pieno di paure, di ansie, di attese che temevo di deludere». Dal confronto è difficile scampare: se il padre Massimo studia il cervello dal punto di vista psicoanalitico, il figlio Niccolò si butta sulla neurofisiologia, l'altra faccia della luna. «Ma a quattro esami dalla laurea in Scienze Biologiche ho lasciato: volevo capire le dinamiche cerebrali e sono franato sulla microcellula del cervello d'un topo. Avevo bisogno d'universale, ed ero prigioniero d'un particolare. Mi sentivo un po' fallito, uno zoologo mancato, capivo che non era quella la mia strada, ma non avevo la forza per trovarne un'altra. Mi rifugiavo negli acquari. Una trentina di vasche per casa, microcosmi acquatici che mi divertivo a comporre e scomporre, come nel gioco combinatorio che è poi l'invenzione narrativa. Mio padre mi lasciava fare, eppure io ero a disagio. Avevo ventitré anni, ci si aspettava qualcos'altro da me. Dovevo uscire dall'infanzia, abbandonarne i rituali ludici e gli incanti». Una sofferenza profonda, che è poi quella dell'adolescenza, «il dolore della crescita, l'addio all'innocenza e al gioco: da lì nasceva il mio malessere». La scrittura come salvezza. «È il solo mestiere che ti permetta di continuare a giocare. Ma anche di stare a casa, di annoiarti e di fantasticare. In fondo continuo a fare oggi quel che facevo da bambino, quando d'una trama reinventavo innumerevoli finali, sempre attratto da storie di solitudine e incomprensione».
Il suo è stato definito un talento narrativo puro, capace di costruire macchine fabulatorie perfette. «The new italian word for talent is Ammaniti», ha titolato tempo fa il Times con un'espressione che ora lo "scrittore bambino" liquida saggiamente come "enfatica ed esagerata". Lo lusinga più l'accostamento con Mark Twain proposto da un giornale americano («Sono riuscito a raggiungere un mostro sacro»), come il giudizio favorevole espresso da uno scrittore solitamente esigente quale Aldo Busi («Mi liquida come il figlio viziato e viziosetto della borghesia romana, ma ha il merito di capire fino in fondo il mio lavoro sulla scrittura»). L'avventura cominciò un po´ per caso, nello studio del padre, davanti a uno schermo vuoto, l'imbarazzo di dover dire ai suoi che non si sarebbe mai laureato. «Per scrivere bisogna sentirsi un po' gli ultimi della terra: non si cura il malessere, ma di certo aiuta. Iniziai con un racconto. Piacque. Fui incoraggiato ad andare avanti».
Prima il romanzo Branchie, poi i racconti di "Fango" e l'esplosione mediatica della "gioventù cannibale", tra pulp e colpi di scena nelle zone d'ombra della vita quotidiana. Ancora il romanzo "Ti prendo e ti porto via", che ne conferma il solido artigianato narrativo. Infine l'osanna della critica per "Io non ho paura", da due anni nella classifica del bestseller, mezzo milione di copie vendute solo in Italia, edizioni in tutto il mondo, la felice traduzione cinematografica di Gabriele Salvatores. Un successo - tutto targato Einaudi - dal quale Niccolò sembra prendere le distanze, quasi impaurito. «Ci sono diverse gradazioni, nella fama. Un primo livello ti rassicura: prima avevo la sensazione d'essere un incapace, bruciato da troppe passioni; ora so d'aver scelto il lavoro che potevo fare. Un riconoscimento che ti migliora anche nel carattere, liberandoti da ansie di dimostrazione». Poi però c'è un livello successivo. «E qui le cose si complicano. Cominci a essere un personaggio alla moda. Vai a una cena e vieni riconosciuto da persone importanti, che dimostrano curiosità per te e i tuoi libri. È allora che scatta la regressione: il successo finisce per riportarti indietro, come una zavorra che ti spalma sul passato, impedendoti di guardare al futuro. Un delirio narcisistico che può farti male, perché il tuo mestiere è guardarti intorno, osservare gli altri. Guardare quelli che ballano, non stare tu al centro della pista».
Ora è in partenza per un'isola della Grecia, dove vivrà due mesi in compagnia di Tiziano Scarpa. Innumerevoli i progetti, tra il nuovo romanzo che deve terminare e molto cinema - sempre in sodalizio con Salvatores - «ma non voglio cedere alle facili lusinghe della popolarità». Nell'immediato, tocca a lui scrivere il finale di un curioso libro collettivo, commissionato da un editore greco a un gruppo di scrittori tra i quali Yehoshua e Michael Faber: una sorta di Odissea contemporanea, della quale ciascun autore deve comporre un capitolo, dopo aver letto ciò che lo precede. Ad Ammaniti il privilegio dell'epilogo: «Per la protagonista, una donna in cerca del padre, ho pensato di chiuderla viva sottoterra». Come in "Io non ho paura", riaffiora la fantasia dei buchi neri nei quali imprigionare vivi e morti. Ci pensa un po´ su: «Credi che gli altri s'arrabbieranno?».