martedì 16 dicembre 2003

Aby Warburg, uno studioso delle immagini a Kreuzlingen

una segnalazione di Sergio Grom

La Repubbica 16.12.03
WARBURG LA NINFA E IL SERPENTE
il ritorno del mito

Anche il Ghirlandaio aveva ritratto una fanciulla che veniva da un mondo remoto eppure era assai viva al punto da far invaghire André Jolles
Il grande studioso avvertì la presenza dell'antichità pagana nel gesto e nei capelli scompigliati di una figura femminile dipinta da Botticelli
Sulla Ninfa dipinta dal Ghirlandaio tra Warburg e Jolles ci fu una corrispondenza fittizia rimasta praticamente inedita
di ROBERTO CALASSO



Anticipiamo parte dell'intervento di sul tema "Origini dell´Occidente: l'eterno ritorno del mito" con cui si chiude oggi a Brescia un ciclo di conferenze presso l'Auditorium di San Barnaba.
Intorno al 1890, a Firenze, il giovane Aby Warburg studia Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava "sopravvivenza" (Nachleben) dell'antichità. E presto arrivò a una conclusione che si sarebbe poi rivelata il perno di tutta la sua opera. Nel tardo Quattrocento fiorentino l'antichità riaffiorava. Ma non già come «nobile semplicità» e «quieta grandezza», secondo la formula di Winckelmann, ancora dominante. Al contrario: Warburg avvertì la presenza dell'antichità pagana nell'improvviso intensificarsi del gesto in una figura femminile - e soprattutto, come se il gesto in sé fosse qualcosa di troppo brusco e avesse bisogno di defluire attorno, nell'improvviso movimento del drappeggio e dei capelli di quella figura, scompigliati da un soffio. Questo Warburg riconobbe in Botticelli. Era il «gesto vivo» dell'antichità che riappariva. Da quel momento la scena sarebbe mutata per sempre. Con l'acume di chi sa trovare «il buon Dio nel dettaglio» Warburg attribuì quella scoperta ai suggerimenti di Poliziano, che nella sua Giostra aveva ricalcato l'inno omerico ad Afrodite, ma aggiungendo alcuni elementi che si riferiscono «quasi esclusivamente alla raffigurazione dei particolari e degli accessori (Beiwerk)»: i capelli sciolti e serpentini, una veste gonfiata dal vento, un tremito dell'aria. Questa - e soltanto questa - è l'antichità che sommuove il teatro mentale della civiltà fiorentina. È una «brise imaginaire», come Warburg dirà commentando un disegno botticelliano di Chantilly. E quella locuzione francese sembra avere nel suo testo la stessa funzione della grisaille per il Ghirlandaio e in Mantegna: «essa confina gli influssi dei revenants nel lontano e umbratile regno della metafora esplicita». Così si crea una distanza tra «formula del páthos» e raffigurazione: distanza che è contrassegno della memoria, della presenza fantomatica di ciò che riemerge.
Pochi anni dopo, sempre a Firenze, Warburg inventò quello che Edgar Wind ha definito «un jeu d'esprit» con un amico, lo scrittore olandese André Jolles. Si trattava di uno scambio di lettere fondato su una donnée: l'innamoramento di Jolles per una figura femminile che appare nell'affresco del Ghirlandaio "Visita alla camera della puerpera" in S. Maria Novella. I due corrispondenti chiamarono questa figura «la Ninfa». Nella stanza della puerpera Ghirlandaio mostra, sulla destra, quattro figure che avanzano: tre dal portamento severo, la prima - che sembra una fanciulla fiorentina dell'epoca - vestita con una stoffa pesante e preziosa, che forma pieghe perpendicolari. Dietro di loro, come sospinta da un soffio (ma non si capisce da dove possa provenire) incede una fanciulla di grande bellezza, dalle vesti ondeggianti e dal passo lieve, fluente e fremente. Dietro le sue spalle la veste s'inarca come in una vela. È la Ninfa. Nella sua figura ritroviamo tutti i tratti che Poliziano aveva aggiunto all'inno omerico e trasmesso a Botticelli. Con lei mette piede nell'austero interno fiorentino un essere che ha traversato indenne i secoli e ora insuffla in quel nuovo mondo la sua brise imaginaire. È una «pagana procellaria», scrive Warburg, che irrompe «in questa lenta rispettabilità, in questo controllato cristianesimo». Nella solenne partizione dell'affresco quella figura è come una tarsia che appartiene a un altro strato della realtà, insieme alieno e pervasivo. «Ho perso la ragione», annota Jolles, ma è la voce di Warburg che parla in lui.
La corrispondenza fittizia Warburg-Jolles sulla Ninfa è ancora inedita. Solo alcuni frammenti ne sono stati pubblicati nella monografia dedicata a Warburg da Ernst Gombrich, priva di qualsiasi congenialità con il soggetto. Ma tanto basta per farci capire che la Ninfa svelata in Botticelli continuava ad agire in lui come immagine-fonte di quella demoniaca esaltazione del «gesto vivo» con cui gli antichi simulacri tornavano a manifestare la loro potenza. Così non meraviglia che nel progetto più ambizioso di Warburg, "Mnemosyne", questo atlante dei simulacri che dovevano parlare quasi da soli, come le citazioni ammassate da Benjamin in quell'altra immensa opera incompiuta che doveva essere il libro sui passages parigini, un intero pannello fosse dedicato alla Ninfa - e lì puntualmente ritroviamo la fanciulla del Ghirlandaio. Ma, con gli anni, l'«onda mnemica» aveva fatto affiorare in Warburg un altro aspetto di quella incantevole figura, che ne mostrava la variante sinistra e terrorizzante: quella che Warburg chiamava la «cacciatrice di teste», la Giuditta, la Salomè, la Menade. Sarebbe sviante attribuire questo a una tarda manifestazione del culto che ebbe la grande décadence per le dark ladies. Come scrisse Edgar Wind, con delicatezza e penetrazione, per Warburg «ogni scossa che egli subiva su se stesso e superava attraverso la riflessione diventava organo della sua conoscenza storica». La minaccia delle «cacciatrici di teste» era per lui un evento mentale che si riferiva alla potenza delle immagini in genere, quale gli si era dischiusa nel fremito delle vesti della Ninfa. Warburg sapeva che la sua testa poteva essere da un momento all'altro rapita dalle Ninfe e rimanere prigioniera della follia.
L'equilibrio psichico di Warburg, sempre precario, sembrò spezzarsi nel 1918. Fra il 1920 e il 1924 visse a Kreuzlingen, nella clinica di Binswanger, luogo storico della schizofrenia. Aveva l'impressione, come un giorno confessò a Cassirer, che «i demoni, il cui imperio nella storia dell'umanità aveva tentato di esplorare, si fossero vendicati catturandolo». Nel 1923, moderno nymphóleptos, Warburg escogitò un katharmós per se stesso: scrisse a Kreuzlingen la Lecture on serpent ritual e comunicò agli psichiatri che sarebbe stato un passo importante per la sua guarigione se fosse riuscito a leggere quel testo davanti agli altri pazienti. Così avvenne. Quando, nel 1939, a dieci anni dalla morte di Warburg, il Journal of the Warburg Institute pubblicò la Lecture, si poteva leggere alla fine una nota in calce: «letto per la prima volta davanti a una unprofessional audience». Parole che dovremmo ascoltare in risonanza con altre che Warburg lasciò scritte in un appunto sulla Lecture: «Queste sono le confessioni di uno schizoide (incurabile), depositate negli archivi degli psichiatri».
Dopo aver sperimentato per anni la potenza dei simulacri sulla vita mentale, Warburg volle dedicare quella conferenza al serpente, il simbolo che più di ogni altro serve, secondo la formula di Saxl, a «circoscrivere un terrore informe». Così la Ninfa e il serpente, Telfusa e Pitone, ancora una volta agirono insieme, l'una sigillando l'inizio, l'altro la fine della ricerca di Warburg. Tornò con la memoria a un viaggio in New Mexico di quasi trent'anni prima, la sua unica esperienza primitiva. Allora aveva visto, in atto, che cosa può essere la conoscenza metamorfica. Guardando la danza rituale in cui gli indiani Pueblo imitano le antilopi, l'aveva intesa come un «atto cultuale della più devota perdita di se stessi nella trasformazione in un altro essere». Ma c'era un altro rituale su cui ora rifletteva: la danza in cui gli indiani Moki danzano con serpenti a sonagli fino a prenderli in bocca per evocare la pioggia salvatrice. Nella danza il serpente viene trattato, scrive Warburg, come «un novizio che si inizia ai misteri». Così diventa un «messaggero» che deve raggiungere le anime dei morti e lì suscitare la folgore. Così il serpente, la più immediata immagine del male, diventa il salvatore. E qui Warburg fa scoccare la scintilla della connessione decisiva, accostando questo rituale all'episodio biblico di Mosè che, per guarire gli Ebrei torturati nel deserto dai «serpenti ardenti», su ordine di Iahvè innalzò un serpente di bronzo su un'asta di legno. Si legge nel libro dei Numeri: «Ora, se uno dei serpenti mordeva un uomo e questi guardava verso il serpente di bronzo, viveva». Questo passo misterioso contraddice brutalmente la condanna biblica, sempre reiterata, degli idoli, degli eídola. Ma è proprio questo il passo che Warburg, tormentato dagli eídola, scelse per salvarsi. O trósas iásetai, «colui che ha ferito guarirà»: l'antico proverbio greco tornava anch'esso ad agire. Ciò che avveniva nella sala della clinica di Kreuzlingen non era nell'essenza diverso da ciò che un giorno era avvenuto sulle rive dell'Ilisso, sotto un alto platano, quando Socrate, rapito dalle Ninfe, aveva parlato a Fedro di come, attraverso il «giusto delirare», si possa raggiungere la «liberazione» dai mali. E a un tratto aveva detto, con la rapidità di chi scocca la freccia ultima, che «la manía è più bella della sophrosyne», di quel sapiente controllo di sé, di quell'intensità media, protetta dalle temibili punte, che i Greci si erano conquistati con immensa fatica e che poi, per un immenso malinteso storico, sarebbe stata identificata da tanti con la Grecia stessa. Ma perché la manía è più bella? Socrate aggiunge: «perché la manía nasce dal dio», mentre la sophrosyne «nasce presso gli uomini».