martedì 16 dicembre 2003

il poeta Giovanni Raboni sulla poesia e il linguaggio

una segnalazione di Paolo Izzo

Corriere della Sera 14 dicembre, 2003
LETTERATURA LIBRI POESIA
I sogni della ragione dove nasce la poesia
Surrealismo e psicoanalisi: così il '900 rivoluzionò il modo di scrivere versi
RIME Il peso dell'inconscio nell'arte
IL CONNUBIO Pensiero notturno e leggi linguistiche
di Giovanni Raboni


Nella generale ripresa d'interesse per i fatti e i protagonisti della cultura (ripresa di cui tanto si è parlato, negli ultimi mesi, a partire dal successo di manifestazioni come il Festival della letteratura di Mantova o il Festival della filosofia di Modena) c'è spazio, a quanto pare, persino per la poesia. Gli incontri, le letture, i dibattiti ai quali mi capita di partecipare sono, in effetti, più affollati e animati che in passato; e quasi mai mancano, da parte del pubblico quelle domande «massimalistiche» del tipo, per intenderci, «Cos'è la poesia?» o «A cosa serve la poesia?» - alle quali è tanto difficile rispondere a caldo quanto, più tardi, non tornare ad arrovellarsi in privato. Dài e dài, mi è venuta un' idea: perché non provare a rispondere in anticipo, a freddo, organizzando in forma scritta e con la maggior chiarezza e semplicità possibile gli argomenti cui, di solito, si pensa solo dopo, troppo tardi, mentre si torna a casa o si aspetta d' addormentarsi? Ecco un primo abbozzo, o forse una prima parte, della mia risposta preventiva. «Fino a che punto il canto appartiene alla voce, e la poesia ai poeti?»: si può partire da qui, da una famosa domanda di Victor Hugo, e chiederci a nostra volta cosa intendesse dire, un secolo e mezzo fa, l'autore della Légende des siècles con questo interrogativo apparentemente sibillino. Le interpretazioni possibili sono, a mio avviso, sostanzialmente due. La prima - la più compatibile con l'ideologia romantica allora imperante - è questa: il singolo poeta è il portatore di emozioni collettive, dei sentimenti di un intero popolo: non lui - o, almeno, non lui soltanto - è dunque il «titolare» di ciò cui dà forma e voce. La seconda interpretazione, storicamente meno fondata, è in compenso più utile a metterci sulle tracce del «cos'è», dell'essenza del fenomeno: la poesia non appartiene soltanto al poeta perché non è lui a deciderne il senso, perché il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà col dire. A questo punto possiamo abbandonare il vecchio Hugo e proseguire per conto nostro. La questione della relativa autonomia del testo poetico rispetto alle intenzioni del poeta è una questione che attraversa l'intera cultura moderna; e per quanto riguarda, in particolare, il '900, è impossibile affrontare l'argomento senza imbattersi in due dei maggiori avvenimenti culturali del secolo: la psicoanalisi e il surrealismo. La psicoanalisi introduce la nozione di inconscio; il surrealismo si appropria di tale nozione e la mette al centro della teoria e della pratica della letteratura e, più in generale, dell'arte. In che senso? Nel senso che compito specifico e caratterizzante della letteratura (e dell'arte) è, per i surrealisti, quello di dare forma, appunto, a una (presunta) «creatività dell'inconscio» liberandola dalle inibizioni e censure della ragione. Di qui, in arte, l'uso generalizzato di accostamenti oggettuali sorprendenti, inspiegabili, scioccanti; di qui, in letteratura e più particolarmente in poesia, l'uso di un libero flusso di immagini che nascono l'una dall' altra obbedendo solo a processi associativi non volontari e non razionali. È la famosa «scrittura automatica»; sin troppo famosa, verrebbe voglia di dire pensando ai risultati estetici ottenuti. Ma le teorie valgono, il più delle volte, soprattutto per la loro carica di sollecitazione, di scatenamento: e se è vero che l'applicazione dell' idea di scrittura automatica ha dato, al momento, esiti modesti, tutt'altro discorso si deve fare per l'onda d'urto provocata, per gli effetti fatti registrare nel tempo: basti pensare al dilagare, in tutto il '900, del «flusso di coscienza» e del «monologo interiore».
Una cosa, comunque, è certa: dopo la psicoanalisi, dopo il surrealismo, non è più lecito dubitare del ruolo che l'attività dell' inconscio svolge nella costituzione, nel concreto farsi dell'oggetto poetico. Quale ruolo? Molto sinteticamente, renderla comunicazione di cui l'oggetto poetico è la fonte (o, se si preferisce, il veicolo) più ricca, più completa, più impressionante nella misura in cui nasce o sgorga non solo dall' intelligenza e dalla volontà dell'autore, ma dalla totalità del suo essere nel senso anche biologico del termine; in altre parole, non solo dal pensiero della veglia, ma anche dal pensiero del sogno, dal pensiero notturno. E basta un altro passo (un passo quasi obbligato) per arrivare a dire che l'essenza della poesia consiste nel far confluire e intrecciare fra loro in un unico accadimento verbale due diverse logiche, due diversi linguaggi, due diversi ordini o categorie di contenuti; e che il suo «scopo» è dar vita a un'immagine intera, non parziale, non dimidiata tanto di colui che parla quanto (per contagio) di colui che ascolta e (per generalizzazione) dell' intero genere umano.
Ma attenzione: se il contributo del pensiero notturno è indispensabile (e, al tempo stesso, spiega) perché la comunicazione poetica abbia queste caratteristiche e svolga questa funzione, altrettanto indispensabile per fissarla, per depurarla di ogni arbitrarietà o futilità, per renderla, insomma, davvero fruibile, è il contributo della ragione. La scarsa significatività degli esempi di scrittura automatica «grezza», lasciata, per così dire, a se stessa, ne sono - in negativo - la prova più evidente. Ed ecco, allora, imporsi come insuperabilmente perfetta la definizione di poesia data tre secoli fa da un trattatista italiano, il gesuita Tommaso Ceva: «un sogno fatto in presenza della ragione». Un sogno, sì, ma controllato e sanzionato dall' intelligenza; uno spazio concesso al pensiero notturno ma garantito, sorvegliato, reso frequentabile dal rigore del pensiero diurno...
Resta da dire - ma è impossibile dirlo se non in presenza di effettivi esempi testuali - come funzioni, come avvenga in concreto questo fondersi, questo fatale e fecondo ibridarsi di due pensieri, di due logiche, di due tipi di messaggio. Mi limito ad annotare, a futura memoria, due punti essenziali. Primo: contenitore-trasmettitore del processo è, ovviamente, la lingua; e ogni testo poetico è di fatto innervato da una rete di microeventi linguistici involontari e spesso subliminali (lapsus, anagrammi spontanei, simmetrie e rimandi occulti ecc.) che oltre a convogliare le incursioni e gli apporti del pensiero notturno dentro il pensiero della veglia contribuiscono ad assicurare alla superficie testuale compattezza, coerenza, continuità sonora, insomma «bellezza». Secondo: essenziale è la funzione dalla forma o, per essere più precisi, dal sistema di regole che danno evidenza sensibile alla forma ideale del testo. A prima vista si direbbe che dover rispettare, per esempio, un numero di sillabe date, o essere costretti a far coincidere in luoghi fissi l'esito di una parola con quello di altre parole, limiti la libertà dell'espressione. In realtà, è vero il contrario: è proprio grazie alla ricerca di un suono che combini con un altro suono, di una parola che abbia quella durata e quell'accento, è proprio grazie a questo sforzo dell'intelligenza e, perché no? del mestiere che scattano «automaticamente» associazioni, collegamenti, richiami altrimenti inattivi o irraggiungibili. Se è vero che il pensiero notturno non diventa esteticamente credibile se non passa attraverso il filtro della ragione è altrettanto vero che in poesia la massima libertà si ottiene, spesso, attraverso un massimo controllo e di rigore se non addirittura (la parola non sembri eccessiva) di repressione formale.
Quattro autori intorno a una domanda "Che cos' è la poesia?" Oltre a quella di Tommaso Ceva, ecco le definizioni di altri tre autori: «Un delirio che sgombra le pazzie», Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) «L'amore realizzato del desiderio rimasto desiderio», René Char (1907-1988) «I poeti e gli schizofrenici tendono a includere molte cose - al limite: l'universo - anche quando parlano di piccoli oggetti ben circoscritti», Ignacio Matte Blanco (1907-1995).