domenica 14 dicembre 2003

Caspar David Friedrich (1774-1840)

Corriere della Sera 14.12.03
IL RITRATTO UN ARTISTA INQUIETANTE CHE HA INCARNATO IL DRAMMA DELL’EROE ROMANTICO
Le cime tempestose del giovane Friedrich
di Franco Fanelli


«Friedrich è un paesaggista molto poetico e singolare. La sua natura genuinamente meravigliosa mi ha colpito nel profondo, sebbene molto del suo essere mi sia rimasto oscuro. Quello stato d’animo e quell’eccitamento religioso che hanno da poco ripreso ad animare il nostro mondo tedesco, e una mestizia solenne, Friedrich cerca di esprimerli con finezza in soggetti paesaggistici. Un simile intento gli ha procurato molti amici e, cosa ancora più comprensibile, molti oppositori». Così lo scrittore Ludwig Thieck descrive una sua visita nello studio di Caspar David Friedrich (1774-1840). Lo avrà sorpreso al cavalletto, in quella stanza spoglia dominata da un finestrone a strombo che appare in un suo celebre dipinto. Friedrich gli avrà spiegato che cosa cercava con la pittura e qual era la sua formula: «Chiudi l’occhio fisico per vedere dapprima il tuo quadro con l’occhio dello spirito». Difficile da capire, in una fase in cui il paesaggio era ancora considerato un genere secondario e i grandi contenuti politici, storici, sociali o religiosi erano affidati alla pittura di figure. Friedrich, in tal senso, era un «trasgressore», un ruolo riconosciutogli anche da Goethe: «... È pur sempre l’unico ad aver cercato di esprimere un significato mistico-religioso in dipinti e disegni di paesaggi».
Dipinse mari in tempesta e naufragi, lande spettrali e vedute urbane, ma il suo elemento era la montagna, luogo mentale e simbolico di tutta l’età romantica. Cime tempestose e baratri sono il teatro in cui vanno in scena la «mestizia solenne» e i «turbamenti religiosi» che tramutano il rampollo di una severa famiglia protestante di commercianti di sapone e candele, l’ex allievo dell’Accademia di Copenaghen e che poi sceglie Dresda come residenza per le ricchezze artistiche della città, in uno dei giganti del Romanticismo tedesco.
Friedrich incarna il dramma dell’eroe romantico, il cui tormento personale si intreccia con i drammi del suo tempo, la psicologia si identifica con la storia. E la storia racconta di una Germania debole perché divisa, umiliata dalle truppe di Napoleone, che nel 1806 sfilano sotto le finestre dello studio del pittore. Per chi, come lui, è un fervente irredentista, l’eroe nazionale è Arminio, il barbaro che fu capace di battere le legioni di Augusto e di redimere la Germania contaminata dagli invasori. Nello stesso atelier di Friedrich, nel 1808, ne canta le gesta il poeta Heinrich von Kleist, in una delle prime letture del suo dramma dedicato al vincitore dei romani. Poco prima un quadro di Friedrich, "Croce in montagna" aveva scosso non solo la critica ma anche la coscienza politica del suo Paese: la grande croce che domina il dipinto era un chiaro riferimento a quella che il poeta Ernst Moritz Arndt aveva indicato come monumento nazionale dei tedeschi finalmente liberi. Tutta la pittura dell’artista tedesco sarà percorsa da questa tensione politica e spirituale. Come l’"Ortis" di Foscolo, il pittore di Dresda capisce presto che il sogno della Rivoluzione francese ha generato un mostro, la dittatura napoleonica; né sarà meglio il dopo, la Germania della Restaurazione e di Metternich, bigotta e repressiva.
Allora saranno i tempi del "Naufragio della Speranza", un quadro-simbolo del Romanticismo, concepito da Friedrich nel 1823: la banchisa polare si chiude intorno alla chiglia di una nave e la stritola; la natura, ancora una volta, prevale con la sua brutalità sui progetti e le utopie dell’uomo. Si trattava di una potente allegoria, portatrice di un messaggio universale ma forse, anche, di una drammatica reminiscenza privata, quella del fratello Johann Christoffer annegato nel 1787 proprio per salvare il piccolo Caspar Friedrich dall’annegamento in un lago ghiacciato.
Troppo inquietante per piacere, quel capolavoro non scampò alle ironie della critica: «Spero che il ghiaccio si sciolga», scrisse qualcuno quando l’opera venne esposta.
Il suo ruolo di precursore di tanta pittura moderna, tuttavia, non gli impedì di conoscere un certo successo: fra i suoi estimatori, lo zar Nicola e il principe ereditario Federico Guglielmo di Prussia che lo onoravano delle sue visite. Friedrich, infatti, non si mosse quasi mai da Dresda. Gli bastavano gli echi delle coste baltiche per concepire dipinti di angosciosa modernità come "Monaco sulla spiaggia"; e gli fu sufficiente il viaggio di nozze, nel 1818, sull’isola di Rugen, per ritrarne le «Bianche scogliere», quasi un idillio in mezzo a una produzione squassata da tempeste marine o dominata dalla terribilità di quei monti che Friedrich visitava in rapide escursioni.
Non compì neppure il fatidico viaggio in Italia, anche perché non era un idolatra dell’antico. Scriveva: «Il celebrato gusto artistico del nostro tempo dovrebbe dunque consistere nell’imitare un’epoca precedente, per quanto splendida sia?». Ma chissà che cosa avrebbe pensato di tutti quegli artisti che da lui hanno ripreso idee e iconografie. Tra di loro, in tempi recenti, due suoi connazionali. Anselm Kiefer, negli anni Ottanta, è tornato sul mito dell’artista-eroe e di Arminio, il cui spirito, in un quadro di Friedrich, giace nelle viscere di una montagna. Hans Haacke alla Biennale di Venezia del 1995 ha tramutato il pavimento del padiglione della Germania in un disastroso «mare dei ghiacci», dominato, in fondo, dalla croce uncinata. Anche il mondo del cinema ha reso omaggio alla visionarietà di Friedrich: nei "Duellanti" di Ridley Scott, il contendente sconfitto ma irriducibile, il generale Feraud, conclude la malinconica passeggiata che segna la fine del film su una roccia da cui scruta un paesaggio immenso e velato, chiara citazione di "Viandante sul mare di nebbia". È forse il più noto quadro di Friedrich, dipinto nel 1818. È "L’Infinito" di Friedrich. Pochi mesi dopo, Giacomo Leopardi avrebbe composto il suo.

Corriere della Sera 14.12.03
LO SCENARIO GLI ARTISTI STUDIAVANO I PAESAGGI COME SCIENZIATI. MA POI CEDEVANO ALL’EMOTIVITÀ
Quando la natura fu rapita dal sentimento
di Francesca Bonazzoli


Quando Lorenzo Ghiberti scrisse i "Commentari", nel sesto decennio del Quattrocento, fece una sintesi dei trattati di Alhazen, Bacone, Pecham e Witelo, ovvero del sapere scientifico medievale. Dopo aver acquisito la fama con i rilievi prospettici della seconda porta del Battistero di Firenze, Ghiberti voleva dimostrare che l’artista non era un semplice artigiano (lui stesso nasceva come orafo), ma il detentore di profonde conoscenze intellettuali e filosofiche. Relegato dalla divisione medievale fra coloro che praticavano le «arti meccaniche», l’artista che avesse saputo di grammatica, geometria, filosofia, medicina, astrologia, ottica, storia, anatomia e aritmetica, avrebbe potuto mettersi sullo stesso livello di chi padroneggiava le «arti liberali», soprattutto la poesia. Dopo Ghiberti, anche Leon Battista Alberti, Brunelleschi, Piero della Francesca, Leonardo, scrissero libri di ottica e prospettiva.
Arte e scienza, dunque, sono andate a braccetto almeno da quando l’arte abbandonò la dimensione ultraterrena dei fondi oro per quella storica, utilizzando prospettiva e volume.
Leonardo, però, è stato il primo ad individuare il fascino dell’eccezione. La precisione delle sue osservazioni scientifiche soccombeva spesso sotto la pressione della fantasia: gli studi sulle acque, per esempio, si trasformavano presto in un immaginifico diluvio universale; le rupi sullo sfondo della "Vergine delle rocce" evocavano un misterioso paesaggio lunare.
È vero, dunque, che i pittori studiavano o scrivevano di ottica e prospettiva, che sezionavano i cadaveri per decifrare l’anatomia del corpo umano, ma poi si lasciavano trascinare dalla propria emotività.
Nei saggi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, raccolti nel 1956 sotto il titolo di "Arte e illusione", lo storico dell’arte Ernst Gombrich riporta un significativo episodio raccontato dall’illustratore tedesco Ludwig Richter. Un giorno, intorno al 1820, l’artista si era trovato a Tivoli con un gruppo di amici a dipingere dal vero il paesaggio e la cascata. Dopo qualche tempo era sopraggiunta una comitiva di pittori francesi. Quando alla sera i lavori furono messi a confronto, ognuno risultava diverso dall’altro nonostante tutti i pittori si fossero sforzati di essere fedeli all’originale.
L’episodio è rivelatore e si può affermare che proprio quando, nella seconda metà del Settecento, si diffuse la pratica di dipingere all’aperto, pratica che avrebbe dovuto garantire una maggiore «scientificità», l’osservazione del paesaggio si trasformò in sentimento del paesaggio. Per esempio, nonostante l’inglese Wright of Derby (1734-1797) frequentasse il cenacolo di industriali e scienziati membri della Lunar Society di Birmingham, quando si trovò a dipingere l’"Eruzione del Vesuvio", non potè trattenersi dal pigiare sul pedale «gotico» ammassando nel cielo enormi cumuli di nubi nere dietro le quali si affacciava una luna che rifletteva il suo spettrale lucore sul mare mentre, in primo piano, piccole figure nere portavano via i morti.
D’altra parte, nel 1757, il suo connazionale Edmund Burke, pubblicava il saggio "Ricerca filosofica sulle origini delle nostre idee del Sublime e del Bello", in cui, di fatto, in piena età dei Lumi, anticipava l’estetica romantica. Il Bello non stava più nell’ordine e nella regolarità, nel decoro e nella convenienza. Il sublime era nel contrasto fra l’incommensurabile e inconoscibile potenza della natura e la debole ragione dell’uomo; nell’irregolare, nella meraviglia, nel mito e nel mistero.
Questo sentimento della natura era percepito soprattutto nel Nord Europa dove si diffondeva l’attitudine a divinizzare la vita e celebrare la figura dell’uomo eroe. Il passaggio delle Alpi e del Gottardo per raggiungere l’Italia durante il Grand Tour, diventava un momento di «formazione», quella che Goethe, nel Faust, chiama la «Bildung». L’inglese Robert Cozens e, successivamente il connazionale William Turner, viaggiavano sempre con l’album da disegno e la scatola degli acquerelli in tasca per fissare dal vivo lo spettacolo della natura, ma quando dipingevano, trascendevano il dato realistico e si lasciavano incantare dai fenomeni atmosferici e luministici.
Negli stessi anni, invece, gli artisti italiani e soprattutto i francesi che venivano a studiare all’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici, sviluppavano tutt’altra attitudine rispetto ai colleghi del Nord: invece di cogliere gli effetti notturni, i temporali e gli orridi, semplificavano la composizione del quadro in uno schema ordinato e razionale di chiari e di scuri, di forme geometriche che escludevano l'aneddotico, il dettaglio e il sentimentale. Era il nuovo gusto neoclassico che Diderot riassumeva con la formula «dipingere come si parla a Sparta», ovvero in modo laconico, con poche frasi, secondo la parola d’ordine «ordre, calme, clarté». Le vedute di Louis Gauffier, Jean-Germain Drouais, Pierre-Henri de Valenciennes, sono visioni mentali che ricostruiscono i rigorosi rapporti geometrici della natura.
Sembra un facile schema fra Nord e Sud, eppure, anche a distanza di un secolo, la montagna Sainte-Victoire dipinta da Cézanne restava un esercizio di stile, di studio della luce e dei volumi, mentre le alte pareti di rocce e i dirupi che Böcklin dipingeva, vibravano di una materia paurosa e oscura, nei cui anfratti si insinuavano l’ombra e il mistero.

Corriere della Sera 14.12.03
LE OPERE DAL RINASCIMENTO AI CONTEMPORANEI L’ESPRESSIONE DI UN IDEALE DI BELLEZZA SCOMPOSTA
L’arte e la scienza ai piedi delle rocce
di Martina Zambon


«Queste grandi cattedrali della terra / con i loro cancelli di roccia, pavimenti di nuvole / cori di torrenti e di pietre, altari di neve, e volte di porpora attraversate da una disseminazione di stelle...», scrive John Ruskin in "Modern Painters, IV" nel 1856. Nella metafora di un’architettura di roccia e neve, Ruskin cristallizza lo sguardo di chi, come lui, fu soggiogato dall’immensità silente delle Alpi. A dispetto dei multicolori snowboard e delle mises da sci fosforescenti, il sentimento di chi non ha saputo resistere all’attrazione vertiginosa dei sentieri impervi resta immutato. «Questa mostra racconta del rapporto fra grandi artisti e la montagna - spiega Anna Ottani Cavina, curatrice dell’evento di Rovereto - nei momenti in cui la montagna è stata fonte di ispirazione interiore prima che artistica».
L’ambiziosa rassegna «Montagne - Arte, scienza, mito» è stata progettata dal Mart in occasione del suo primo anno di attività. Ambiziosa e difficile: il poliedrico contenitore artistico trentino, decentrato rispetto alla geografia espositiva «che conta», decide di ammirare lo splendido panorama alpino che circonda il Museo attraverso gli occhi di centinaia d’artisti. Non manca, è vero, un’articolata sezione dedicata ai canyons americani, alle rocce rosse e sconfinate che rappresentano, nel corso dell’800 il mito dell’Ovest, il Far west dell’espansione degli Stati Uniti. È innegabile (e voluto) che la parte del leone sia, però, delle Alpi. È dalle Alpi che parte la riscossa di un ideale di bellezza altro, antitetico ai canoni di armonia ed equilibrio cullati dalle acque del Mediterraneo. Proprio a partire dagli artisti, spesso provenienti dal nord Europa e per questo meno permeati degli italiani dagli stilemi della bellezza classica si elabora un ideale di bellezza scomposta, tragica, selvaggia quanto i crinali alpini. Da qui si articola una rassegna ampia e dai molteplici piani di lettura secondo due direttrici principali, la storia dell’arte e la scienza.
Bandite le rappresentazioni oleografiche e rarefatte le presenze umane nella opere esposte, si è puntato sul fattore della conoscenza, a partire da Leonardo, di cui è esposto il "Trattato della pittura", nella trascrizione di Francesco Melzi della metà del XVI secolo. La montagna che ne esce è quella stilizzata in frammenti rocciosi quasi astratti delle prime rappresentazioni medievali fino alla montagna conosciuta scientificamente. «Abbiamo scommesso su di una mostra "alta" - conclude Cavina -. Il Mart ha una forte vocazione al contemporaneo e sorprendentemente la montagna silenziosa, un’idea meno aneddotica, emerge proprio dalle opere del secolo scorso, da Cézanne con la "Sainte-Victoire" a Kandinskij e Segantini, ma anche da Schifano a Eliasson». La montagna, sinfonia grandiosa nella musica di Richard Strauss ma anche nucleo fondante del percorso interiore di Castorp, antieroe della "Montagna Incantata" di Thomas Mann che inizia il suo romanzo con «Nessuno, tanto meno il giovane Castorp, poteva pensare di ritornare dal viaggio verso la montagna tal quale era partito e riprendere la vita al punto in cui aveva dovuto lasciarla».
Frutto della collaborazione fra il Mart, l’Università di Trento, il Museo di Scienze Naturali di Trento e le Raccolte d’Arte del Castello del Buonconsiglio, la mostra, curata da Anna Ottani Cavina (arte) e Paola Giacomoni (scienza), allinea duecentocinquanta dipinti e alcune sculture provenienti dal Musée du Louvre di Parigi, dalla Tate Gallery di Londra, dal British Museum dalla National Gallery of Art di Washington, dall’Hermitage di San Pietroburgo, dalla Nasjonalgaleriet di Oslo, fra gli altri. In esposizione anche duecento tra libri antichi, carte geografiche, strumenti scientifici, minerali, modelli d’epoca, stampe, dipinti e disegni.
Progettata secondo un percorso non lineare, l’esposizione si sofferma sui momenti salienti della storia della montagna dipinta e rappresentata: il Rinascimento, poi l’età del Sublime e del Romanticismo, gli anni fra ’800 e ’900 e il contemporaneo. Nella sezione dedicata a ’400 e ’500 ritroviamo anche Piero di Cosimo e il Giambologna; per il Settecento, sotto l’egida della riflessione estetica di Edmund Burke e di Emmanuel Kant, sono esposti i dipinti di Caspar Wolf, Caspar David Friedrich, J. M. William Turner, Wright of Derby, John Martin, Arnold Böcklin, per l'epica americana di Albert Bierstadt e Frederic Edwin Church. I simbolisti di fine ’800, Leonardo Bistolfi, Giovanni Segantini, Ferdinand Hodler, Félix Vallotton, Gustave Moreau, propongono la loro visione onirica e visionaria della montagna.
Dopo lo spartiacque segnato da Cézanne, sopraggiungono Edvard Munch, Vasilj Kandinskij, Alexei von Jawlensky e Ernst Ludwig Kirchner. Nel secondo dopoguerra le posizioni si estremizzano, dolorosamente, nell’opera di Kurt Schwitters, nelle pastose matericità di Jean Dubuffet, nella disincantata e pungente ironia di Andy Warhol. Gli ultimi decenni sono rappresentati da Salvatore Scarpitta, Mario Merz e Amish Fulton, Gerhard Richter, Ed Ruscha, Enzo Cucchi e Georg Baselitz. Gli anni ’90 si fanno portatori di una coscienza ambientalista ormai matura che denuncia la violazione della natura montana e l’impossibilità a vivere pienamente la montagna a causa, forse, di snowboard multicolori e tute da sci fluorescenti. La raccontano Anish Kapoor, Andreas Gursky, Walter Niedermayr, Elisa Sighicelli, Olafur Eliasson. In mostra anche «L’echo» il video vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di quest’anno realizzato dalla lussemburghese Su-Mei Tse.