Corriere della Sera 31.12.03
Cultura
E Lukács incantò Thomas Mann
di VITTORIO STRADA
Il momento più intenso che il terrorismo e la riflessione sulla sua legittimità etica hanno trovato nella cultura europea è legato alla biografia intellettuale di György Lukács, il filosofo marxista ungherese che è stato, assieme ad Antonio Gramsci, l’espressione più alta del «leninismo occidentale». Gli storici che hanno ricostruito la sua vita e il suo pensiero, come Arpad Kadarkay ha fatto nel modo migliore, sono concordi nel riconoscere che la fase centrale della sua formazione coincide con la grande crisi europea che va dalla guerra mondiale alla rivoluzione bolscevica, periodo in cui Lukács scrisse i suoi due capolavori Teoria del romanzo e Storia e coscienza di classe, opere che segnano il suo passaggio da una tormentata ricerca etico-religiosa all’adesione totale al comunismo. Fu, questo, uno degli episodi più straordinari e significativi della coscienza europea di quegli anni a livello sia intellettuale sia esistenziale, tanto che il giovane Lukács divenne il prototipo di un personaggio di uno dei maggiori romanzi del tempo: La montagna incantatadi Thomas Mann, dove appare nelle vesti del gesuita rivoluzionario Naphta, avversario di un’altra figura, Settembrini, quintessenza dello spirito democratico. La «conversione» di Lukács al comunismo leniniano fu un vero «salto della fede», una «scelta» kierkegardiana che l’opera successiva di Lukács «razionalizzò» all’estremo, senza però cancellare l’impulso «irrazionale» di base. In questa vicenda, il terrorismo occupa un posto essenziale perché il giovane Lukács fu attratto da quella che era e resta la forma più potente del terrorismo «classico»: quello russo, che lo affascinò attraverso l’opera di Boris Savinkov, un socialista rivoluzionario che - oltre a praticare sistematicamente il terrore contro il regime zarista - come nessun altro ne seppe esprimere la problematica psicologica e morale in opere letterarie di rilievo. Se si aggiunge che Lukács, alla vigilia della sua «conversione», fu un acuto lettore di Dostoevskij, geniale indagatore del delitto quale atto metafisico e metapolitico, sulla cui opera il pensatore ungherese ha lasciato appunti di straordinario interesse, e si aggiunge poi che egli fu legato da un breve e tormentato matrimonio con una affiliata del terrorismo russo, Elena Grabenkom, si capirà come il tema della violenza costituisse per il neofito bolscevico qualcosa di essenziale, un problema che egli doveva affrontare per giustificare a se stesso il passaggio dall’iniziale idealismo etico all’accettazione piena e attiva del terrore rivoluzionario.
Vivendo il comunismo come problema morale, Lukács nel 1919, nell’articolo Tattica e etica pone e risolve, a suo modo, il problema del terrorismo rivoluzionario, dell’imperativo rivoluzionario «Tu devi uccidere!», sentito da lui, a differenza della più parte dei suoi nuovi compagni di partito, come flagrante violazione dell’imperativo religioso «Non uccidere!». La contraddizione per Lukács si scioglie in un modo tipicamente russo, nello spirito del terrorismo rivoluzionario «classico», del quale Savinkov, con tanti altri conterranei, era stato l’espressione: il terrorista, uccidendo, «sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima». Egli sa di commettere un crimine e non ha alcun dubbio che «in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato», ma sa anche che esso, tuttavia, «può avere, tragicamente, una natura morale». Per esprimere meglio questo pensiero Lukács cita le splendide e terribili parole dell’eroina del dramma di Friedriche Hebbel Judith: la bella ebrea Giuditta che - nell’omonimo libro della Bibbia, quando la sua città, Betulia, sta per cedere a Oloferne, il tremendo generale di Nabucodonosor - finge di passare dalla parte del nemico, concedendosi ad Oloferne, ma per decapitarlo poi nel sonno. Le parole di Giuditta che Lukács porta come giustificazione sofferta del terrorismo suonano: «E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso».
Giuditta sa di commettere un «peccato», assassinando Oloferne (e chiederà ai suoi di ucciderla per timore di procreare un figlio dal nemico nell’amplesso che ha preceduto l’assassinio), ma sente il delitto come voluto da Dio, un imperativo dal quale essa non può esimersi. Così Lukács credeva di aver risolto il problema etico del terrorismo rivoluzionario, accettandolo come farà la sua proiezione romanzesca, Naphta, nella Montagna incantata, secondo il quale il compito del proletariato è «il terrore per la salvezza del mondo», fino ad arrivare al profetico verdetto che «non liberazione e sviluppo dell’io sono il segreto e l’esigenza della nostra epoca. Ciò in cui essa ha bisogno, ciò che brama, ciò che riuscirà a procurarsi è... il terrore».
Naphta vedeva il futuro più lucidamente del suo prototipo, Lukács, il quale nonostante il suo razionalismo marxista fondato su un atto di fede irrazionale, era ancora dominato da una visione etica anche nella giustificazione del terrore rivoluzionario: è vero che il Dio di Giuditta non era più il suo, essendo la divinità da lui adorata quella della Storia, ovvero la necessità immanente al processo storico rivelata da Marx, ma ciò che allora gli sfuggiva, e che egli stesso nell’Unione Sovietica avrebbe osservato di persona, è che con la rivoluzione bolscevica il terrorismo «classico» alla Savinkov era finito ed era cominciato un terrorismo totale e totalitario di massa, la cui espressione centrale diventò il Gulag. Come diceva con spietata ironia Anna Achmatova, un eroe dostoevskijano come Raskolnikov uccide per «idea» una vecchia usuraia e involontariamente sua sorella e poi si angustia per tutta la vita, mentre i boia bolscevichi ammazzano con un colpo alla nuca qualche decina di «nemici di classe» e poi vanno a riposarsi.
Il «leninista occidentale» Lukács, la cui coscienza non poteva non essere gravata dalla responsabilità dei successivi crimini della rivoluzione, ragionava ancora entro un orizzonte etico-religioso giudaico-cristiano, come l’esempio di Giuditta dimostra. Oggi il terrorismo, pur nella continuità del suo sviluppo, è entrato in una fase nuova, successiva a quella «classica», ancora cristiana, e a quella atea, comunista (e nazionalsocialista), una fase anch’essa religiosa, ma di una religione (e civiltà) diversa che giustifica senza remore l’uccisione in massa di innocenti fortuitamente prescelti e il suicidio simultaneo dell’omicida, votato a una remunerazione ultraterrena, oltre che alla gloria postuma di chi è reputato martire. Anche la storia del terrorismo conosce un suo macabro progresso sulla via verso il nulla, a partire dai lontani patemi d’animo di un Lukács e dei «suoi» terroristi dostoevskijani.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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