martedì 23 dicembre 2003

il padre del razzismo moderno, De Gobineau (1816-1882), in Persia

La Stampa 23 Dicembre 2003
IL VIAGGIO IN ORIENTE DEL CONTE «RAZZISTA»: MOSCHEE, MISERIE E SPLENDORI, PERSONAGGI STRANI, RACCONTATI CON AMMIRAZIONE
Gobineau, nella Persia
dei dervisci furfanti
di Mario Baudino


MENTRE usciva in Francia il libro che lo avrebbe consegnato all’inferno della storia, facendo del suo nome un sinonimo di cattivo maestro, Joseph-Arthur conte di Gobineau se ne stava beatamente in Persia, addetto d’ambasciata inviato là da Napoleone III poco dopo la proclamazione, a Parigi, del Secondo Impero. Il quarantenne aristocratico legittimista, che aveva iniziato la carriera diplomatica come capo di gabinetto di Aléxis de Tocqueville, non amava particolarmente il sovrano, ma aveva un’amicizia totale, nonostante le vedute piuttosto differenti, con il grande liberale.
Guardandoli ora, insieme, in una sorta di cartolina d’epoca, sembrano e il diavolo e l’acqua santa: l’uno bollato per sempre come ideologo del razzismo dopo la pubblicazione del Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, l’altro cresciuto sempre più nella considerazione dei posteri come teorico della democrazia. Su qualche punto, però, dovevano intendersi per forza: e possiamo immaginare che il ministro degli Esteri francese leggesse con piacere pagine come quelle che De Gobineau scriveva da Teheran, prendendosela con quanti, in Europa, «hanno considerato i popoli dell’aurora alla stregua di rarità dimenticate in qualche angolo sperduto del mondo», e hanno visto in loro «soltanto dei selvaggi frustrati che si sottomettevano ai depredamenti europei, oppure, se facevano resistenza, dei sanguinari».
Era accaduto che nel corso della missione il reazionario attaché d’ambasciata si era innamorato della Persia, del suo sfarzo selvaggio e della pur notevole quantità di caos che rilevava giorno per giorno, della sua cultura, del grande passato e del presente, che riteneva altamente interessante. De Gobineau, nel resoconto di questa avventura, pubblicato nel 1859 col titolo Trois ans en Asie, usa fatalamente il termine «razza», che al lettore moderno non può non ripugnare, ma almeno nei confronti dei persiani non dimostra inclinazioni «razziste». Tanto vale provare a leggerselo, devono aver pensato all’editrice Medusa di Milano. E sfidando un certo scandalo hanno pubblicato il libro in una bella tradizione italiana, dal titolo Viaggio in Persia, con una prefazione di Franco Cardini.
Lo storico, con una punta di provocazione, esordisce citando un non identificato collega intento a chiedergli, strabiliato: «Davvero vuoi scrivere una cosa su De Gobineau? Sei matto?... Di certe cose non si parla e basta. Almeno, se proprio devi scriverle, metti le mani avanti: dinne subito male». Confessiamo che ci piacerebbe moltissimo conoscere il nome del virtuoso intellettuale, destinato tuttavia, sembra, a rimanere un piccolo mistero. Ma è certo che parlare di un «maledetto» come De Gobineau può provocare esecrazione. Giustificata? Secondo Cardini no, anzi. Il conte è stato «espulso dalla porta d’ingresso \ per colpe in gran parte non sue». In effetti il suo razzismo aveva una tradizione alle spalle, che arrivava fino ai padri dell’Illuminismo, e alla scoperta grazie al contatto con la civiltà indiana che si poteva immaginare una comune origine per le popolazioni da allora chiamate «indoeuropee», insomma la gran maggioranza dei «bianchi».
Ora, dato che anche i persiani facevano parte di questa famiglia, forse non dovrebbe stupire l’atteggiamento di apertura che il conte dimostra nei loro confronti. Ma va anche detto che la sua teoria sulla decadenza delle civiltà a causa del mischiarsi della «razze» (è questa l’idea guida del suo saggio «maledetto»: anche se bisogna aggiungere che riteneva il processo inevitabile, e non pensò mai a mezzi per ristabilire ipotetiche «purezze») non influenza il diario di viaggio. De Gobineau ammira le rovine di Persepoli e le grandi moschee, ma anche lo stato di degrado delle zone intorno ai monumenti. Gli piacciono i mucchi di mattoni e di scarti che non deturpano affatto, secondo lui, i tessuti urbani; adora i baffoni di Nasreddin Sha, giovane imperatore persiano, che gli ricordano irresistibilmente «quelli del re di Sardegna».
Gli piacciono la pompa di corte, i diademi e le pietre preziose, e anche l’interesse del popolo per la propria storia, le piccole assemblee spontanee di analfabeti che si creano per strada intorno a qualcuno intento a leggere un libro ad alta voce. Soprattutto sembra estasiato dal feroce individualismo che riconosce nella gente del bazar. Infila aneddoti raccolti chissà dove, come quello sul fallimento della «guerra santa» proclamata - a malincuore - contro la minaccia inglese, nel 1865, e per di più su suggerimento di un consigliere armeno-cattolico. Il suo spirito legittimista, qui, trova di che deliziarsi. Descrive le chiacchiere del bazar, dove nessuno ha la minima intenzione di impegnarsi temendo «di vedere la canaglia armarsi e attraversare la città, come avviene da noi quando la patria viene dichiarata in pericolo, con tutti gli inconvenienti che comporta la comparsa di questo tipo di difensori», l’indifferenza «della plebaglia», i lazzi contro i predicatori e infine lo squagliarsi generale.
Alla fine, il «razzista» De Gobineau deve pur far ricorso all’ideologia, promettendo che «l’analisi della composizione etnica del sangue di questo popolo» spiegherà il motivo per cui «il tempo ha impresso questa direzione scettica e fredda all’intera nazione». Ma questo tributo alle proprie (e altrui) convinzioni non gli impedisce di scrivere un bellissimo diario, di godersi la Persia ottocentesca e di riuscire ancora, a distanza di anni, a comunicarcene il piacere, narrandoci i fuochi d’artificio nella città santa di Qom o magari la storia di una derviscio un po’ furfante che inganna un principe credulone proponendogli in moglie una fata. A libro finito, che cosa resta di questo innominabile De Gobineau? Cardini lo mette tra coloro che «fecero grande» l’Ottocento e si spensero uno alla volta allo scoccare del secolo (il conte morì a Torino nel 1882). L’affermazione è impegnativa, si può discutere. Ma questo «Viaggio in Persia» dimostra che ci sono ancora buoni motivi per «parlare di certe cose». Nonostante il panico dell’ignoto accademico citato nella prefazione.