martedì 23 dicembre 2003

la Costituzione in Cina è cambiata

Corriere della Sera 22.12.03
Nuovo passo nelle riforme per il mercato: ogni bene sarà garantito, indennizzi in caso di esproprio
Viva la proprietà privata, la Cina ritocca la Costituzione


PECHINO - Nuovo passo avanti della Cina sulla via delle riforme tracciata da Deng quasi venticinque anni fa: d’ora in poi anche per la legge della Repubblica Popolare la proprietà privata non sarà più «un furto». Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare ha infatti avviato ufficialmente le procedure per emendare la Costituzione introducendovi il principio dell’inviolabilità della proprietà privata. Principio finora ammesso di fatto ma non di diritto. I legislatori di Pechino hanno così accolto una proposta formulata dal Comitato centrale del Partito comunista in ottobre. Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo e in genere agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature del testo di una legge. La riforma pone anche un limite agli arbitrii finora consentiti agli amministratori pubblici: d’ora in poi, gli espropri di terre, negozi e industrie daranno diritto a un «equo indennizzo».

Cina, la proprietà non è più un furto
Emendamento della Costituzione per riconoscere il «diritto inviolabile» dei privati


«Non importa di che colore è il gatto. L’importante è che mangi il topo». Lo dice un proverbio cinese. Con questa mentalità pragmatica da oltre vent’anni la Repubblica Popolare si è di fatto convertita a un capitalismo selvaggio dove i ricchi sono ricchissimi, i poveri poverissimi e su tutto comunque la spunta il Partito comunista, che può in qualunque momento decidere di espropriare un terreno, una fabbrica o un negozio. Da ieri qualcosa è cambiato. Il comitato permanente dell’Assemblea nazionale popolare (quest’ultima si riunisce una sola volta l’anno) ha ufficialmente preso in esame la possibilità di emendare la Costituzione per inserirvi il diritto alla proprietà privata. Si tratta di una proposta uscita dall’ultimo Comitato centrale del partito nell’ottobre scorso. In quell’occasione il presidente Hu Jintao ha lanciato un nuovo modello di capitalismo «sostenibile» sia dal punto di vista dell’impatto ecologico, che da quello dell’impatto sociale. Se finora l’importante era mangiare il topo (secondo lo slogan lanciato alla fine degli anni Settanta da Deng per cui «arricchirsi è glorioso»), all’ultimo Congresso Hu ha decretato che «la crescita economica non è il nostro unico obiettivo. Noi puntiamo a bilanciare la crescita, gli sviluppi politici e le conquiste sociali».
Ora la parola passa al Parlamento che si riunirà a marzo. In genere, però, l’assemblea legislativa agisce meccanicamente su impulso del Partito, limitandosi a piccole limature nella scelta delle parole da usare nella stesura di una legge.
Ma in che cosa consistono precisamente le riforme proposte ieri? «I due emendamenti principali riguardano gli articoli 11 e 13, ossia la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo», spiega il professor Renzo Cavalieri, docente di Diritto dei Paesi afro-asiatici a Lecce. L’articolo 11 era già stato modificato nel ’99 con un emendamento che definiva le imprese private «una parte importante dell’economia socialista».
Pure in quel caso si trattava della ratifica di uno stato di fatto, visto che l’industria privata e gli investimenti stranieri rappresentano ormai i due terzi dell’economia cinese: la parte sana, che ha portato la Cina a tassi di crescita del 9 per cento annuo (mentre le imprese di Stato finora hanno campato con i prestiti delle banche: crediti inesigibili che rischiano di strangolare il sistema bancario cinese).
«Il testo proposto dal comitato permanente dice che l’industria individuale e privata è tutelata dallo Stato purché legalmente acquisita. E introduce il concetto di "equo indennizzo" in caso di esproprio», spiega il professor Cavalieri.
Diverso è il caso dei terreni agricoli, che sono e restano pubblici, cioè di proprietà dello Stato o delle «collettività». I contadini cinesi possono prendere in affitto i terreni per 70 anni, un po’ come il leaseholder inglese, che compra l’usufrutto del suo appartamento ma non la nuda proprietà (freehold), spesso ancora in mano agli eredi di alcune grandi casate nobiliari.
Il secondo emendamento, quello sui beni di consumo, amplia e generalizza un principio che era anch’esso già riconosciuto. L’articolo 13 della Costituzione ammette infatti il diritto a possedere «redditi da lavoro, risparmi, case e altre proprietà private». Lo Stato, con la riforma proposta ieri, s’impegna d’ora in poi a proteggere la proprietà privata in quanto tale (purché «acquisita legalmente»), definendola inviolabile: proprio come la proprietà pubblica.
Secondo il direttore dell’istituto italiano di Cultura a Pechino, Francesco Sisci, si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale (nel senso occidentale del termine): «I cinesi non hanno tradizionalmente la nozione di diritto - ha dichiarato Sisci all’agenzia Apcom -, un concetto che noi abbiamo ereditato dal diritto romano. Col riconoscimento di un diritto la Cina scava le fondamenta per la sua prima grande riforma politica».
Il professor Cavalieri la pensa diversamente: «Non bisogna attendersi cambiamenti drastici. Quanto sta accadendo ora è il frutto di un lento processo di democratizzazione in corso da almeno un decennio. La Cina ha aderito alla fine degli anni Novanta alle convenzioni delle Nazioni Unite sui diritti politici, economici, sociali. E nel ’99 ha introdotto il rule of law, il principio di legalità. Ora il Comitato propone di introdurre un emendamento all’articolo 33 in cui lo Stato riconosce la tutela dei diritti umani».
Una prima, ancora «timida», risposta alle tante preoccupazioni internazionali suscitate dalle continue violazioni dei diritti umani nella Repubblica popolare che, fra i tanti record, vanta anche quello, tristissimo, delle esecuzioni capitali: almeno 1.060 nel 2002 secondo Amnesty International, circa l’80 del totale mondiale. Per non parlare dei dissidenti politici condannati al carcere (diverse centinaia) e della persecuzione delle sette, Falun Gong in testa, ma anche delle religioni: è di ieri la notizia dell’arresto di tre cristiani accusati di «spionaggio». Insomma, la strada da fare è ancora molta: ma in tema di diritti la Cina non conosce grandi balzi, solo piccoli passi.

La Stampa 23.12.03
LA TUTELA DELLA PROPRIETA’ PRIVATA ENTRA NELLA COSTITUZIONE CINESE
Il comunismo confuciano santifica il capitale
di Mimmo Cándito


LE rivoluzioni, quelle che cambiano la storia dei popoli e si fanno poi simbolo di mondi nuovi, non sempre arrivano con la ribellione di masse lanciate all'assalto della Bastiglia o del Palazzo d'Inverno o anche d'un vecchio Muro ideologico ormai in rovina; possono arrivare pure con un semplice dispaccio d'agenzia. E l'annuncio, ieri, dell'agenzia ufficiale Nuova Cina che Pechino sta per dichiarare «inviolabile la proprietà privata acquisita legalmente», quell'annuncio vale davvero una rivoluzione. Ora un tempo si chiude, Mao e Lenin (e Marx) già staute di marmo, diventano mummie perfino ingombranti nelle dinamiche frenetiche che stanno mutando radicalmente paesi, politiche, culture, la nostra stessa memoria collettiva.
In questo nuovo tempo, Pechino si propone come l'unico vero «competitore» degli Stati Uniti (così l'ha comunque definito un documento del Dipartimento di Stato, cambiando la vecchia dizione di «partner» e ufficializzando, dunque, una drammatica escalation strategica, tanto militarmente quanto politicamente). La Cina aveva già messo da parte Mao, la Rivoluzione Permanente, i rigori fanatici delle Guardie Rosse, l'eredità ideologica del marxismo; lo aveva fatto con i modi e con lo stile che - da Deng Xiaoping in poi - hanno sempre segnato le lente trasformazioni d'un processo che è apparentemente immutabile nei propri riti e nelle formulazioni ufficiali d'una gerontocrazia d'apparato, ma che in realtà è travolto da autentiche svolte epocali, con una correzione continua della ortodossia cui obbedivano i partiti comunisti al potere. E l'ultimo comngresso del Pcc, a ottobre dello scorso anno, aveva deciso di legalizzare la proprietà privata, ma non ne aveva dato un vero annuncio ufficiale.
La scelta votata dai 2000 delegati che affollavano il solenne edificio della Grande Assemblea del Popolo era stata anche accompagnata da un dibattito, però il partito aveva rinviato la sanzione pubblica di quella decisione, destinandola a un tempo successivo, un tempo nel quale il passaggio obbligato attraverso una modifica della Costituzione dell'82 sarebbe stato presentato come una proposta da sottoporre al Comitato permanente dell'Assemblea. La stanca metodologia burocratica dentro la quale finiva per essere assorbita quella scelta tendeva, ovviamente, a ridurne la portata e l'impatto; che tuttavia non sono rilevanti se non in termini di lettura simbolica, perchè lo scontro sul ruolo dell'iniziativa privata (in opposizione al ruolo delle imprese pubbliche) che segna oggi le decisioni della leadership cinese ha un ridotto contenuto ideologico, ed è trascinato piuttosto da motivazioni di stretta natura economicistica: cioè quale sia il miglior rapporto tra investimenti bancari e risultati produttivi.
Come ebbe a dire Deng, che «non è essenziale che il gatto sia bianco o nero, l'essenziale è che acchiappi i topi», la nuova Cina che da quasi 20 anni cresce a un tasso d'incremento costante del 7 per cento non bada più ai proclami rigidi della vecchia cultura marxista, e alle formulazioni d'una politica di governo bloccata dal rispetto dei canoni ideologici; lo sviluppo economico, e l'uscita da una condizione di marginalità produttiva, sono diventati gli obiettivi reali che legittimano l'assunzione al potere degli eredi di Mao. I rituali appaiono immodificati, «contadini, operai, e soldati» vengono sempre magnificati come l'energia pura della Rivoluzione; e però, poi, più del 90 per cento dei delegati dell'ultimo congresso del pcc aveva una laurea, e i militari sono precipitati dall'8° posto della gerarchia ufficiale al 21.mo e al 22.mo posto. E nel congresso gli imprenditori hanno avuto una propria rappresentanza ufficiale, con una distorsione della ortodossia che soltanto la crescita economica ha reso digeribile ai quadri del partito (funzionari comunque che per quasi due terzi sono venuti fuori dal tempo nuovo delle riforme).
Un pragmastismo, spregiudicato intimamente, ma formalmente controllato, sta segnando la sfida che Pechino porta al proprio passato, nel tentativo di ricuperare - attraverso la crescita economica - il ruolo e la potenza dell'antico Impero Celeste; è una sfida che impegna la Cina in un confronto di lungo tempo con l'Occidente, e il passaggio attraverso la legalizzazione della proprietà privata è solo una tappa, nemmeno d'importanza strategica. La Cina sta sostitudendo gli Usa come destinazione prioritaria dei flussi internazionali d'investimento: il gatto si liscia i baffi, all'ombra del nuovo millennio.