venerdì 19 dicembre 2003

Pablo Picasso, a Parigi

La Stampa 19.12.03
IN MOSTRA A PARIGI GLI ARCHIVI DELL’ARTISTA: UN UOMO CHE NON GETTAVA NIENTE E CATALOGAVA TUTTO, ANCHE GLI INSULTI
Picasso, la vita in scatola
Conservava persino i biglietti del tram
di Marco Vallora


PARIGI. «PERCHÉ dovrei sentirmi impegnato a gettar via quello che mi ha fatto la grazia di giungere sino a me?». Ci può essere frase più gentile e rivelatrice di questa? Tante qualità si possono ascrivere al rude, diretto Picasso: forse non proprio la gentilezza: la «delicatesse». Eppure è con il viatico nella testa di quell'espressione magnifica, insieme d'accettazione metafisica, di passività regale e di cosmica disponibilità, soprattutto toccata da una grazia sublime, che possiamo accingerci a visitare questa geniale mostra, aperta sino al 19 gennaio, al Museo parigino di Picasso, che si chiama Les archives de Picasso.
Abitualmente il termine di «archivio» spande intorno a sé un po' di sentore polveroso e pedante: fiato pesante della filologia ed esattezza maniacale. Certo questo non poteva capitare con Picasso, che forse era sì maniacale nel conservare tutto («Pablo il conservatore» lo chiamavano gli amici, a contrasto col suo ruolo rivoluzionario d'artista) ma pure non rischierà mai il sospetto di catalogatore precisino e noioso. E così i curatori di questa mostra, Marie-Paule Arnauld e Gérard Régnier, che non è poi altri che Jean Clair, hanno pensato di vivacizzare e teatralizare questo viaggio tra le sue carte, con una sottile messa in scena ed un'arte di racconto del personaggio, che è tutta francese.
Biglietti d'augurio ammonticchiati come in un trompe-l'oeil ottocentesco. Finte carpette-colonne per costruire l'architettura inquieta di questa cattedrale labile del ricordo. E poi un'immensa quadreria di tele, dipinte spesso in stile costituzionalmente anti-picassiano, che bambini ed adulti gli spedivano, per celebrare il genetliaco del Maestro ed il Culto di Sé. Ma Picasso, generoso ed avido, non gettava via nulla, perché tutto gli sembrava degno di sopravvivere (e certo non solo perché sanciva il trionfo definitivo della propria imago pubblica). Come quando il suo segretario Sabartès tentava di lasciarlo lavorare in pace, chiudeva le porte agli intrusi, e lui s'imbufaliva. «Non posso proprio. Lo so che quando dipingo tutto viene dal mio mondo interiore. Ma se so che di là c'è qualcuno, sono tormentato dall'idea che ci potrebbe essere qualcosa che io devo sapere. Io ho bisogno degli altri, non soltanto per quel che mi apportano, ma per questa mia terribile curiosità, che io devo comunque soddisfare».
E' lo stesso sentimento di avidità nei confronti della vita (quasi un esorcismo della paura di morire) che gli faceva conservare tutto, dai disegni degli amici ai biglietti del tram o del cinema (e non soltanto per nutrire i suoi collages) lettere di devozione come di disprezzo, fotografie, ritagli di stampa, appunti. La mostra ha un sottotitolo rivelatore, rubata al consapevolissimo artista: «si è quello che si conserva». Che pare ridisegnata sul protagonista di Quarto Potere di Orson Welles, che anche lui ammassava, accumulava, tesaurizzava, per illudersi di essere. Picasso non aveva dubbi sul suo essere, ma voleva che le cose restassero accanto a lui, come dei vivi feticci di protezione. Per questo, quando si sposò ed entrò nel ruolo del buon borghese, in Rue de la Boétie, si costruì una doppia casa inquietante: sotto, quella benestante e pretenziosa; sopra, un simmetrico regno stregonesco, ove crescevano stalagmiti impressionanti di documenti e scarti preziosi, cui nessuno poteva aver accesso, men che meno le domestiche. Perché lui aveva un culto sacro e nutritivo della polvere, sorta di abito propiziatorio: e giovane, quasi aveva alzato le mani sulla madre, che si era permessa di spazzolargli un cappotto, benedetto dalla polvere nostalgica di Parigi.
Ecco poi, all'appello, una quantità impressionante di lettere, di scambi, di biglietti, con poeti, pittori, mercanti, amici. Revery si limita a disegnare una specie di calligramma incolonnato come un sonetto, in cui ammette la volontà di deporre la sua ammirazione e basta. «Mio caro Picasso / questo qui non è nulla / né una lettera né un poema / solo qualche parola / scritta con fervore per voi/ per la nostra amicizia / e la grande ammirazione / che merita il grande / l'unico artista / che siete». Magnifico, l'eccentrico musicista Satie, con cui Picasso ha condiviso la burrascosa battaglia di Parade, che bussa leggermente alla porta della sua attenzione, per mandare un timido ricordo, con la sua artificialissima calligrafia miniata e déco: «Sono io, mio caro amico. Satie». E nient'altro. Oppure: «Complimenti affettuosi a Perruchette, vi prego»: il pappagallo di casa, con cui probabilmente si sentiva assai più a suo agio.
Con Stravinsky nulla, perché o si vedono e discutono animatamente, altrimenti non son tipi da sprecare tempo nelle missive. Radiguet fa invece il finto perbenino, scusandosi per il lungo silenzio: non ha ancora ringraziato per il dono del ritratto, che nobiliterà la sua raccolta di poemi. E s'intuisce subito che alle spalle c'è il vecchio Cocteau («Jean è qui, malato, ecco perché non vi ha ancora scritto») che gli fa le rampogne e lo rimprovera per non aver ancora mandato due righe. Quanto a Cocteau, è tutto un piagnisteo: «non dimenticarti di me», «perché non m'hai ancora risposto?»: ma c'è un affiatamento quasi morboso. Che noiosino invece Magritte, che trova ogni scusa, per informarsi, una lagna, se ci sono sbocchi di mercato e mercanti da consigliare. Picasso ogni volta risponde, anche agli sconosciuti, e aggiunge (sulle missive d'omaggio o di questua) un appunto, per ricordarsi la propria reazione. Che pazienza impressionante! Anche quando ha la cattiva idea di rispondere ad un giornalista che «vorrebbe essere povero», ed allora è subissato di rabbie, di proteste, di richieste. E come si sarà divertito, quando un ragazzino replica: «Io invece amerei esser ricco. Dipende solo da voi». O quando riceve un busta con sopra la sua immagine ritagliata e sotto scritto solo: Cannes. Naturalmente gli arriva. Come quando il grande David imbustò per «Canova. Europa», e la missiva trovò naturalmente la sua via.