sabato 27 dicembre 2003

connivenze: Sartre e Wojtyla

La Stampa 27 Dicembre 2003
Sartre in prigione
scrive su Gesù
di Giorgio Calcagno


CHE cosa faceva il soldato Jean-Paul Sartre, caduto prigioniero dei tedeschi dopo la disfatta del 1940, nello Stalag XII di Treviri? Teneva lezioni su Heidegger per i preti suoi compagni di reclusione, partecipava ai loro dibattiti di teologia; e, per allietare il Natale di tutti, scriveva un testo teatrale sulla nascita di Gesù. Anzi, ne curava di persona l’allestimento, dando la propria voce a uno dei Re Magi.
Il più laico dei filosofi novecenteschi, sotto la corazza di un inespugnabile ateismo, nascondeva dunque un cuore di credente? Non è proprio così, basta leggere la sua opera. Ma non è nemmeno, esistenzialmente, il contrario. Sartre aveva fatto i suoi conti con la fede fin da ragazzo, respingendola: «Avevo bisogno di un Creatore e mi davano un Gran padrone», come avrebbe scritto in Les mots. Nella sua prospettiva, per una rivendicazione radicale della libertà umana, Dio diventava un elemento di disturbo. Pure, se il filosofo negava, l’uomo continuava ad essere attratto; e, posto in condizioni eccezionali, in mezzo a uomini di fede con i quali sentiva di condividere tanti valori, teneva acceso il dialogo.
Il risultato, che oggi per la prima volta viene alla luce in Italia, è Bariona o il figlio del tuono: lettura affascinante, malgrado varie improprietà della traduzione; sempre rispettosa dell’evento, mai devozionale. È un testo che lo stesso Sartre aveva smarrito e che solo alcuni compagni cattolici di prigionia avevano conservato: cercando di convincerlo, molti anni dopo, a pubblicarlo. Sartre accettò, a condizione che fosse preceduto da una sua lettera, per stabilire le distanze: «Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata». Egli voleva solo attuare, «in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti».
Solo per quella sera di Natale? Bariona, letto oggi, non ci appare un semplice scritto di occasione. C’è dentro molto del pensiero filosofico, e soprattutto politico, di Sartre: che vedeva, nel sovrintendente romano della Giudea, una sorta di gauleiter tedesco. Ma c’è anche autentica poesia, nel suo linguaggio; c’è uno sviluppo drammatico vero. E c’è, inatteso, uno stupore incantato per il mistero cristiano: che, contro i distinguo dell’autore, sarebbe difficile non scambiare per un’adesione personale. Come la intese, uno dei prigionieri, che si convertì perché toccato dalla recitazione di Sartre.
Il testo viene presentato da Antonio Delogu, studioso della filosofia francese nel Novecento, che mette a fuoco il rapporto sempre dialettico fra Sartre e il problema religioso: nelle sue conclusioni negato, ma non eliminabile mai, nel percorso. Il capofila dell’esistenzialismo, ricorda Delogu, fu avversato tanto dai marxisti quanto dai cattolici, che lo rifiutavano senza cogliere quanto di cristiano si nascondeva nel suo fondo. Fu difeso solo da un filosofo polacco, che nell’affrontare il tema della libertà dell’uomo, rinviava alla fondamentale opera sartriana, L’essere e il nulla. Era un prete di Cracovia, si chiamava Karol Wojtyla.