citato al mercoledì
(cfr anche la seconda parte, qui sopra)
segnalato da Silvia Iannaco
Repubblica 28.12.04
TUTTA LA VITA IN UN'ELICA
Viaggio nella storia e nei segreti del DNA Un saggio di James Watson, che con Francis Crick, scoprì la struttura del codice genetico
Fin dalle origini della sua storia cosciente, l'uomo aveva cercato la chiave di quel mistero
Sui due scienziati ebbe influenza Schrödinger, padre della meccanica quantistica
Compreso l'alfabeto, si è poi passati a leggere l'intero libro. Vale a dire, il genoma
di PIERGIORGIO ODIFREDDI*
*docente dell'Università di Torino,
membro del Comitato di Presidenza
dell'Unione degli atei italiani (UAAR)
Il 28 febbraio 1953, benché fosse sabato, il ventitreenne James Watson si recò in laboratorio la mattina presto, ed ebbe l'intuizione della sua vita: rimescolando i quattro tipi di tessere di un puzzle tridimensionale di cartone sul quale stava lavorando, che corrispondevano alla struttura chimica delle quattro lettere (A, T, G e C) dell'alfabeto del DNA, si accorse che esse combaciavano perfettamente a coppie (A con T, e G con C).
A metà mattina il trentasettenne Francis Crick raggiunse il compagno di ricerca, e comprese immediatamente che la sua scoperta significava che il DNA aveva una struttura a doppia elica, costituita da due catene di lettere orientate in direzione opposta. All'ora di pranzo i due si recarono al loro solito pub, l'Eagle, e Crick annunciò modestamente ai commensali che, insieme a Watson, aveva appena scoperto il «segreto della vita».
Fin dalle origini della sua storia cosciente l'uomo aveva infatti cercato di rispondere alla domanda più fondamentale che poteva porsi: . La «Cosa c'è di misterioso, magico, o addirittura divino, nella vita?». E la risposta che Watson e Crick avevano appena trovato era: «Niente!». La vita risultava infatti non essere altro che il prodotto di normali processi fisici e chimici, e per spiegarla non era neppure stato necessario inventare una nuova scienza, come qualcuno aveva supposto o temuto: bastava quella che già c'era.
Per metabolizzare una simile risposta, che ci dovrebbe finalmente liberare dalla mitologia che per millenni ha avvolto nelle sue nebbie metafisiche il problema della vita, ci vorranno decenni. Lo dimostrano, ad esempio, le parole con cui il presidente Clinton annunciò ancora dalla Casa Bianca, il 26 giugno 2000, il completamento della prima bozza del genoma umano: «Oggi apprendiamo il linguaggio con il quale Dio creò la vita». E lo dimostrano le mille polemiche che accompagnano il DNA in ogni sua manifestazione, dagli Ogm alle staminali.
In attesa che l'ora di DNA sostituisca, o almeno si affianchi, all'ora di religione nelle scuole, proviamo a ripercorrere, da un lato, la storia delle conquiste teoriche di mezzo secolo di biologia molecolare, e a dispiegare, dall'altro lato, il ventaglio delle applicazioni pratiche che la conoscenza del DNA ha reso possibili. Ci guida in questo compito uno dei più bei libri di divulgazione scientifica di questi anni, appena uscito in Italia:
DNA. Il segreto della vita (Adelphi, pagg. 462, euro 39,50), che Watson stesso ha scritto per celebrare il cinquantenario della sua scoperta.
Anche se, parlando di libri, bisognerebbe partire da
Che cos'è la vita di Erwin Schrödinger (Adelphi, 1995): un testo di uno dei padri della meccanica quantistica, che ebbe un'influenza decisiva non solo per Watson e Crick, ma per tutta una generazione di biologi. Fu in quel libretto del 1944 che venne divulgata per la prima volta l'idea che si doveva pensare alla vita come a un processo di archiviazione e di trasmissione dell´informazione biologica, compressa in quello che Schrödinger chiamò il «codice ereditario». Capire che cosa fosse la vita richiedeva dunque l'identificazione del supporto e la decifrazione del linguaggio di questo codice.
In quegli anni si pensava ancora che il supporto del codice genetico fossero le proteine, e il suo alfabeto i 20 amminoacidi.
Il DNA era stato scoperto nel 1869 da Friedrich Miescher, in un poco romantico studio delle bende impregnate di pus fornitegli da un ospedale. Negli anni '30 si era capito che era costituito da una lunga molecola contenente quattro basi chimiche: le «lettere» A, T, G e C alle quali abbiamo già accennato. E nel 1944 Oswald Avery aveva finalmente dimostrato che era proprio questa molecola a contenere l'informazione genetica: poiché però la scoperta fu accettata dai genetisti ma avversata dai biochimici, Avery morí nel 1955 senza aver ricevuto il premio Nobel che meritava.
Watson e Crick ricevettero il loro nel 1962, e la doppia elica contribuí a portare il DNA alla ribalta. A scanso di equivoci, l´idea che la molecola fosse costituita da un'elica non era affatto nuova: il grande chimico Linus Pauling, vincitore di ben due premi Nobel (per la chimica e la pace), aveva annunciato proprio nel 1953 un modello a tripla elica, poi risultato sbagliato. Anche Maurice Wilkins era convinto che si trattasse di un'elica, e cercò di determinarla non mediante modelli, come Watson e Crick, ma attraverso la diffrazione a raggi X: le foto del suo laboratorio fornirono una conferma della struttura, e Wilkins condivise con loro il premio Nobel nel 1962.
Prima ancora che a Watson, Crick e Wilkins, il premio era andato nel 1959 ad Arthur Kornberg, per aver scoperto nel 1957 un enzima, detto DNA polimerasi, che lega fra loro le due eliche. Quanto alla loro separazione, che Crick aveva supposto avvenisse come in una cerniera lampo, e stesse alla base del processo di copiatura dell'informazione genetica, essa fu confermata nel 1954 da Matt Meselson e Frank Stahl, in quello che venne definito «il più bell'esperimento della biologia».
Una volta compresi i dettagli della struttura della doppia elica, rimaneva da decifrare il codice genetico: come vengono specificati, usando un alfabeto di sole quattro lettere, i venti amminoacidi di cui sono costituite tutte le proteine? Nel 1961 Sydney Brenner e Crick scoprirono che inserire o eliminare una o due lettere nel DNA produce un effetto devastante, ma inserirne o eliminarne tre no, e capirono che nel primo caso si riscrivono tutte le parole, mentre nel secondo se ne perde solo una: le parole del codice genetico, dette «codoni», sono dunque di tre lettere. E poiché con un alfabeto di quattro lettere si possono fare 64 codoni distinti, il codice dev'essere ridondante.
Nel 1961 Marshall Nirenberg scoprì che uno dei più semplici segmenti di DNA, costituito di sole A, produceva un particolare amminoacido (la fenilalanina): il codone corrispondente, dunque, doveva essere AAA. Insieme a Gobind Khorana, che mise a punto tecniche chimiche per fabbricare segmenti di DNA consistenti di un solo codone, Nirenberg riuscí nel giro di qualche anno a decifrare tutto il codice, e i due ottennero il premio Nobel nel 1968.
Il passaggio dal DNA alle proteine non è però diretto, bensí mediato da una seconda forma di acido nucleico, chiamata RNA. Nel 1959 Crick proclamò il «dogma centrale» della biologia: l'informazione genetica va a senso unico, dal DNA all´RNA alle proteine. Per spiegare questo strano meccanismo, in cui l´uovo (il DNA) viene necessariamente prima della gallina (le proteine), Crick ipotizzò che l'RNA fosse stata la prima molecola genetica, in un'epoca in cui la vita era basata solo su di esso: il DNA sarebbe uno sviluppo successivo, probabilmente in risposta all´instabilità dell'RNA. Nel 1983 Tom Cech e Sidney Altman diedero la prima conferma che l'RNA era una sorta di «uovo-gallina» autocatalizzante, e ottennero il premio Nobel per la chimica nel 1989.
Una volta compreso l'alfabeto e le parole del codice genetico, rimaneva da leggere l'intero libro: il genoma delle varie specie, uomo compreso. I capitoli di questo libro si chiamano geni, e la scoperta di come si attivano e si disattivano in un batterio intestinale (
E. coli) valse il premio Nobel del 1965 a Jacques Monod e François Jacob: una coppia la cui popolarità rivaleggia con quella di Watson e Crick, grazie anche ai loro rispettivi libri
Il caso e la necessità (Mondadori, 1970) e
La logica del vivente (Einaudi, 1971).
A sequenziare completamente il primo genoma, quello del virus PhiX174, fu Frederick Sanger, che vinse così il suo secondo premio Nobel in chimica nel 1980 (il primo l'aveva vinto nel 1958 per la sequenziazione della prima proteina, l'insulina). Al sequenziamento nel 1997 del primo genoma batterico, l'
E. coli, seguì nel 1998 quella del verme
C. elegans, che valse a John Sulton il premio Nobel nel 2002: benché composto di sole 959 cellule, e non più grande di una virgola, il verme ha ben 19.000 geni! Il genoma umano è stato invece sequenziato da un consorzio pubblico, inizialmente diretto da Watson, e da una compagnia privata, la Celera di Craig Venter: benché enormemente più grande e complesso, l'uomo ha solo 25.000 geni, pochi più del verme!
Ma, come direbbe Thomas Eliot, quella che sembra la fine della storia, è invece soltanto un inizio. Ad attendere la biologia molecolare sono ora infatti i tre grandi progetti della genomica (comprendere la funzione dei singoli geni e la loro azione congiunta), della proteomica (sequenziare e studiare le proteine), e della trascrittomica (determinare quali geni siano attivi in una data cellula), con l'obiettivo di capire nei dettagli l´intero meccanismo della vita, dalla prima cellula all'intero organismo, per la maggior gloria dello spirito umano.
(1. Continua)
la seconda parte di questo articolo,
il giorno dopo:
Repubblica 29.12.04
QUEI GENI DENTRO DI NOI
Viaggio nella storia e nei segreti del DNA
Molti esperimenti fanno paur La "terapia genica" scandalizza. Si discute sugli OGM
l Nobel Lewis ottenne mutanti mostruosi del comune moscerino della frutta
Le prime ricerche sugli animali di Paul Berg scatenarono un putiferio
Certi benpensanti vorrebbero in realtà che non s'interferisse con "i piani di Dio"
di PIERGIORGIO ODIFREDDI*
*docente dell'Università di Torino,
membro del Comitato di Presidenza
dell'Unione degli atei italiani (UAAR)
Nel nucleo di ogni cellula di un organismo c'è una copia di una grande enciclopedia, chiamata genoma, che contiene il programma completo dell'organismo. Questa enciclopedia è scritta su una carta chiamata DNA, ed è suddivisa in volumi chiamati cromosomi, che nell'uomo sono 23.
Di ogni volume ci sono due copie identiche, salvo errori di stampa, e ciascuno contiene centinaia o migliaia di capitoli, chiamati geni. Ogni capitolo si compone di sezioni di storie, detti esoni, intervallati da annunci pubblicitari, chiamati introni, che nei batteri sono assenti, ma nell'uomo (c'era da dubitarne?) costituiscono la quasi totalità del capitolo. Ogni storia è scritta in parole di tre lettere, chiamate codoni, tratte da un alfabeto di quattro lettere, chiamate basi.
Decodificare e comprendere il genoma di una specie significa appropriarsi delle informazioni necessarie a capire il funzionamento dei suoi individui, a ripararne le disfunzioni, ed eventualmente anche a modificarli in maniera più o meno radicale, fino a farli divenire «altro da sé». Come nel caso degli esperimenti di Ed Lewis, premio Nobel nel 1995, che modificando con sostanze chimiche il DNA della drosofila, il comune moscerino della frutta, ne ha ottenuti dei mutanti mostruosi: con zampe al posto delle antenne, o con quattro ali invece di due.
Naturalmente, sono proprio esperimenti di questo genere a scandalizzare i benpensanti, che vorrebbero si stesse alla larga dal DNA, per non interferire con «i piani di Dio»: primo fra tutti, la creazione della vita. Troppo tardi, naturalmente, visto che la cosa è già stata fatta da tempo: per la precisione, dal premio Nobel Arthur Konenberg, che nel 1967 ottenne una molecola artificiale di DNA virale che si comportava esattamente come il virus naturale da cui era stato copiato, e fece dichiarare al presidente Johnson che si trattava di una «conquista grandiosa».
Il virus di Konenberg era però soltanto l'esatta replica di uno già esistente. Con le tecniche del DNA ricombinante, che permettono di fare «copia e incolla» sui geni, tagliandoli da un DNA e inserendoli in un altro, negli anni '70 divenne possibile anche la cosiddetta terapia genica: inserire una copia non difettosa di un gene in un virus, e iniettare poi il virus nell'organismo perché esso «infetti» le sue cellule, andando a sostituire le copie difettose di quel gene.
I primi esperimenti di questo tipo furono fatti su animali nel 1971 da Paul Berg, e scatenarono un putiferio: i biologi molecolari stabilirono una moratoria sugli esperimenti, che furono dichiarati fuorilegge dalla città di Cambridge. Alla fine degli anni '70 sia la scienza che la politica riaprirono le porte alla ricerca, e oggi la terapia genica è già stata sperimentata sugli esseri umani per curare malattie come la SCID, un'immunodeficienza combinata che costringe il bambino a vivere in una camera a bolle, senza poter avere nessun contatto fisico diretto con i suoi simili.
Essere contrari alla terapia genica, sia nella versione somatica, in cui si cambiano a posteriori i geni all'interno delle cellule di un organismo già sviluppato, sia in quella germinale, in cui si alterano a priori i geni negli spermatozoi o negli ovuli prima della fecondazione in vitro, significa rifiutare per principio una cura al 2 per cento dei neonati, che vengono al mondo con gravi anomalie genetiche, e al 10 per cento dei bambini ospedalizzati, che soffrono di malattie di diretta derivazione genetica. E un problema analogo si pone per lo screening preventivo nel feto di malattie genetiche incurabili, come il morbo di Huntington, la distrofia muscolare di Duchenne o la fibrosi cistica.
Chi obietta all'uso dei virus per modificare il genoma, dovrebbe comunque sapere che ormai da vent'anni una gran quantità di proteine umane commerciali è prodotta in maniera artificiale da batteri. L'esempio più comune è l'insulina, necessaria per la cura del diabete: quella di maiale o bovina, che veniva usata prima delle biotecnologie, non è completamente uguale a quella umana, e provocava spesso reazioni allergiche. Un altro esempio è l'ormone della crescita, necessario a curare il nanismo: in origine lo si doveva estrarre dal cervello dei cadaveri, e a volte produceva una malattia del cervello simile a quella della mucca pazza.
Prima di poter far produrre proteine umane ai batteri, si è dovuto però risolvere un interessante problema teorico: il DNA dei batteri non ha introni, e può quindi soltanto replicare gli esoni di un gene umano. La soluzione venne da un enzima scoperto nel 1970 da Howard Temin e David Baltimore, che fruttò loro il premio Nobel nel 1975: questo enzima, chiamato «trascrittasi inversa», viola il dogma centrale della biologia e converte l'RNA in DNA.
Poiché il passaggio dal DNA alle proteine passa appunto attraverso la produzione di RNA ripulito dagli introni, il DNA ottenuto per trascrittasi inversa da quell'RNA è anch'esso ripulito, e può essere inserito nel batterio per fargli produrre la proteina corrispondente.
Naturalmente, le modifiche del DNA più note sono quelle degli OGM, la cui applicazione più comune è stata la produzione di piante resistenti all'attacco di agenti patogeni: ironicamente, gli oppositori degli OGM sono gli stessi che qualche decennio fa si opponevano all'uso dei pesticidi, oggi drasticamente diminuiti proprio grazie agli OGM.
In ogni caso, gli OGM non modificano affatto fantomatiche piante «naturali», bensì altri OGM ottenuti in maniera diversa, per selezione naturale o artificiale: l'esempio più tipico è il frumento che usiamo per il pane quotidiano, che è un incrocio artificiale del farro (a sua volta un incrocio) con un egilope, e che ancora qualche secolo fa era alto un metro e mezzo, come mostrano I mietitori di Brueghel.
Un altro motivo per cui il DNA è recentemente salito alla ribalta della cronaca, in genere nera o rosa, è l'impronta genetica, che nelle indagini criminali costituisce ormai l'alter ego di quella digitale. La tecnica si basa su un fatto scoperto casualmente da Alec Jeffreys nei primi anni '80: all'interno di certi geni ci sono piccoli frammenti ripetuti molte volte, ma in numero diverso da individuo a individuo, perché il meccanismo di copiatura del DNA non funziona bene sulle ripetizioni, e tende a sbagliarne il numero. Basta confrontare le ripetizioni in qualche decina di siti, per stabilire con certezza quasi assoluta l'identità di due campioni di DNA, o una loro parentela più o meno stretta.
Banche dati genetiche sono ormai state istituite: quella dell'FBI ha già raggiunto un milione di impronte di pregiudicati, e quella del Dipartimento della Difesa tre milioni di soldati. Lo stato del Wisconsin ha recentemente aperto un procedimento contro un individuo sconosciuto, identificato soltanto attraverso la sua impronta genetica. E si può immaginare che in futuro, anche senza raggiungere gli estremi del film Minority Report, il passaporto riporterà anche la nostra, insieme alla foto.
Fra le scoperte più affascinanti che lo studio del DNA ha permesso di effettuare, ci sono le ricostruzioni della storia della nostra specie. Quella dei movimenti recenti di popolazioni, ad esempio, che hanno mostrato che l'Islanda è stata colonizzata da uomini di origine scandinava (i Vichinghi), ma da donne irlandesi. O che i parsi hanno tramandato le loro origini iraniane per via paterna, pur mescolandosi liberamente alle donne indiane. O che i Cohen di tutto il mondo, discendenti dei «kohanim», hanno tutti lo stesso cromosoma Y, probabilmente derivato da Aronne. O che gli ebrei sono indistinguibili da tutti gli altri gruppi mediorientali, palestinesi compresi, in accordo con la loro comune discendenza da Abramo.
Risalendo più indietro, si è arrivati a determinare da dove venivano i nostri progenitori comuni, cioè la donna dalla quale derivano tutti i nostri mitocondri, e l'uomo dal quale derivano i cromosomi Y di tutti i maschi: con buona pace della Lega, erano entrambi africani e neri. Così come si è arrivati a determinare che l'uomo e lo scimpanzé hanno in comune il 98% del loro DNA: con buona pace, questa volta, degli antievoluzionisti che imperano negli Stati Uniti, e che stanno ormai alzando la testa pure da noi. Anche a questo, servono gli studi del DNA: a spazzare via i pregiudizi sulla natura e sull'uomo che religioni e filosofie ci hanno propinato per millenni, e che è finalmente giunta l'ora di buttare nel cestino dei rifiuti della storia.
(2. Fine)