venerdì 23 gennaio 2004

ancora sulle macchine dei sogni
oggi e ieri

il manifesto 23.1.04
Qui si fabbricano sogni su misura

Alcuni precedenti letterari di quella che si annuncia come l'ultima bufala di inizio secolo La multinazionale giapponese Takara ha appena lanciato un apparecchio per fabbricare sogni liberamente impostati dall'utente. A metà strada fra la lanterna magica e il videopoker, la macchina agirebbe come un programmatore subliminale, liberando profumi, articolando suoni, proiettando lampi di luce colorata al fine di condizionare una sorta di imprintig sensoriale, attivo nella fase di elaborazione delle immagini oniriche. Alcuni «sognatori» hanno riferito, tuttavia, che sebbene il tema desiderato per le loro nottate fosse giusto, la storia finiva nella maniera sbagliata
di MARCO DOTTI


Quattordicimilaottocento yen, centodieci euro. A tanto ammonta il prezzo di lancio di Yumemi-kobo, un apparecchio per fabbricarsi su misura i sogni, a metà strada fra la lanterna magica, l'abat-jour e il videopoker, che, a partire dal mese di maggio, la multinazionale giapponese Takara prevede di far entrare in punta di piedi nelle nostre camere da letto. Stando a quanto riferiscono i progettisti della società di Tokyo, la macchinetta, debitamente e liberamente impostata dall'utente, agirebbe come un programmatore subliminale molto rozzo, ma altrettanto efficace, liberando profumi, articolando suoni, proiettando lampi di luce colorata al fine di condizionare l'emisfero cerebrale non dominante. Il condizionamento si realizzerebbe attraverso una specie di imprintig sensoriale, attivo nell'ultima fase del sonno, quella in cui il vissuto onirico inizia a farsi immagine, frammento, traccia da riorganizzare in ricordo, ricondotta dalla parte rassicurante del giorno. Chiunque volesse sognare «in compagnia» ora potrà farlo senza problemi, scaricando nel fondaco del proprio subcosciente, grazie ad un apposito programma, la fotografia dell'amato/a, del caro estinto, del vip preferito, o di un qualsiasi passante. Nel caso di soggetti particolarmente «resistenti» alle sollecitazioni psicocinetiche, però, gli «effetti potrebbero non essere quelli desiderati». La dinamica delle retroazioni, testata con lo scivoloso criterio della consueta «diligenza del buon padre di famiglia» (nessuna trasgressione, ruoli ben definiti), non è per nulla rassicurante.
Al momento, ha precisato Kenji Hattori, responsabile dell'area marketing, «la macchina è in fase di sperimentazione, anche se avanzata», fatto che ne legittima comunque la vendita. A fare da cavia si sarebbero prestati gli impiegati dell'azienda, sollecitati dagli psicologi del gruppo, che avrebbero riscontrato un solo fastidio ricorrente: «Alcuni soggetti hanno riferito che il tema desiderato per il sogno era giusto, ma la storia finiva spesso nella maniera sbagliata». Finiva per scontrarsi, in altri termini, contro il muro di un'immaginazione solo apparentemente disattivata dalla pretesa, ridicola e parossistica, di ridurre ad immagine statica, ingabbiata nel meccanismo di azione-retroazione, la cifra segreta, poeticamente ambigua, del desiderio e del sogno.
Ma un'altra macchina, «morbida» e terribile, ha animato la scena allucinata e sconnessa dei sogni di almeno due generazioni. Degradazione postmoderna del caleidoscopio inventato da Brewster per lo studio della rifrazione ottica, la Dream-machine venne sviluppata nel 1960 dal matematico Ian Sommerville, su commissione di un personaggio eclettico e controverso, il pittore Brion Gysin. Cittadino americano nato, però, nel Buckinghamshire inglese il 19 gennaio 1916, Gysin perfezionò la sua formazione artistica a Parigi, dove si era trasferito già nel 1934. Legatosi ben presto a ciò che rimaneva, dopo la scissione del 1927, del movimento surrealista, venne influenzato dalla pratica del ready-made di Duchamp e del frottage di Max Ernst, oltre che dalle ricerche sul sogno e dai tentativi di scrittura automatica praticati dal gruppo di Breton.
È in questo ambiente che Gysin iniziò a farsi conoscere esponendo le proprie opere accanto a quelle di Picasso, Arp e Man Ray. Studioso di calligrafia, mentre approfondiva la conoscenza dell'arabo iniziò a dedicarsi alla scrittura giapponese, che padroneggerà definitivamente nel 1943.
Fu nel 1958, ricorda Gysin, mentre si apprestava a raggiungere Marsiglia seduto in un autobus, che «una straordinaria tempesta di colori» lo travolse. «Attraversavamo un lungo viale alberato e ho chiuso gli occhi contro il sole che tramontava. Un profluvio di disegni vivacissimi dai colori soprannaturali mi è esploso dietro le palpebre: un caleidoscopio multidimensionale che girava come un vortice nello spazio. Venivo trascinato fuori dal tempo. Venivo portato in un mondo di numeri infiniti... ». Qui nacque l'idea di costruire una macchina che, operando attraverso una sovrastimolazione sensoriale, riuscisse a produrre stati di seminarcosi e allucinazione diurna. Una specie di «terza mente», e Third mind sarà proprio il titolo del testo, pubblicato in Francia nel 1976, che suggellò definitivamente il suo sodalizio umano e artistico, iniziato molti decenni prima, con William Burroughs.
Fu infatti Gysin ad introdurre lo scrittore in un nuovo mondo parallelo, dilatato, senza assi e coordinate, sfondato nel centro esatto del suo improbabile equilibrio. Quando Burroughs vide questo cilindro forato ruotante attorno a una luce, gli sembrò che le stanze del Beat Hotel, al numero 9 di rue Gît-le-Côur, si riempissero di un «alfabeto di colori». Nell'universo ripetitivo di quei colori, gli parve di attraversare tutte le «galassie ferite» cui fa cenno nella Morbida macchina.
Grazie all'uso della Dream-machine, di magnetofoni e calcolatori debitamente calibrati dallo stesso Sommerville, servendosi delle tecniche del cut-up, del fold-in e della permutazione sviluppate con l'ausilio di Gysin, Burroughs riuscirà a costruire gran parte dei propri plagi narrativi. Insieme, lavoreranno a «viaggi» noti e meno noti, da Minutes to go a Exterminator, fino a The Soft Machine (com'è illustrato nel numero dedicato loro dall'edizione italiana di Re/search, ShaKe,1992, pp. 200, 10 euro, nonché in José Ferez Kuri, Brion Gysin.Tuning in to the Multimedia Age, Thames and Hudson, 2003, 240 pp., 29.95 sterline).
Per essere autentica, scriveva Michel Foucault in un saggio apparso quattro anni prima della «folgorazione» di Gysin (saggio premesso all'edizione francese di Sogno ed esistenza di Binswanger, e da poco riproposto in forma autonoma, nella traduzione di Maria Colò, con il titolo Il Sogno, dall'editore Cortina, 93 pagine, 9,30 euro), «ogni immaginazione deve imparare nuovamente a sognare», mettendo in corto circuito proprio «l'incanto delle immagini», le forme semplici senza contraddizioni apparenti, condizione che né la vita, né il suo contrario conoscono. In quest'ottica, continua Foucault, un'ars poetica si legittima solo se aiuta, insegna e alla fine induce a spezzare l'incanto, «liberando il cammino dell'immaginazione verso il sogno che le offre come verità assoluta il suo 'invulnerabile cuore di notte'». Quasi facendo suoi questi intenti - al di là di esiti artistici non sempre convincenti - Burroughs confesserà che «gran parte dei miei personaggi e delle mie situazioni proviene dai miei sogni». Sogni che «annoto sui miei quaderni e, se sono particolarmente interessanti, li dilato fino a trasformarli in altrettante scene riutilizzabili in un contesto narrativo. Talvolta ricavo lunghi sogni narrativi in sequenza, come in un film, e alcuni di essi si trovano parola per parola nel mio lavoro». Il fatto che si tratti di sogni diurni cambia forse le carte sul tavolo, ma non la posta in gioco.