sabato 24 gennaio 2004

capolavori da vedere al MART di Bologna

La Stampa Tuttolibri 24.1.04
In vetta al Mito. Da Dürer a Warhol


NON credete ai curatori di asfittiche mostre, che per difendere le pochezze dei loro risultati, piagnucolano dicendo che oggi le mitiche mostre d'un tempo non si possono più fare, che i musei non imprestano più i quadri, che è impossibile proporre delle rassegne esaustive. Questa del Mart dimostra che con intelligenza, impegno, coinvolgimento di ricercatori seri e preparazione adeguata, tempo e studio insomma, si possono ancora imbandire delle libagioni succose e spettacolari. Onore alla caparbietà della «guida» trentina, Gabriella Belli: chè non deve esser stato facile convogliare qui una cordata di capolavori di Dürer, codici leonardeschi, opere di John Martin, di Wright of Derby, di Goethe disegnatore, di Munch e di Cézanne. E basterebbe se non altro uno dei sei preziosi Friedrich, quello pochissimo visto (perché sta a Rudolstadt) ove la nebbia, come in un Lied di Liszt, si leva incespicando tra i brulli abeti, a dire la rarità di certe scelte (ed anche la preziosità di talune scoperte, grazie alla perizia di Anna Ottani: come il norvegese Peder Balke, che almanacca magri, sinistri frottage, molto prima di Max Ernst). Ma sarebbe un errore leggere la mostra così, come una coroncina diligente o prestigiosa di sole presenze artistiche (e sarebbe una sciocchezza alzare il ditino delle assenze) perché - un po' alla maniera di Jean Clair o di Szeemann, che non a caso hanno acceso, anche qui, la loro miccia propiziatoria - si svolge come un'ascensione anfibia, e sontuosamente bifida, tra l'arte e la scienza, la ventosa suggestione del mito e la verifica geologica dei massi, di queste immense «cattedrali della natura». Come le chiamava il post-romantico Ruskin, che dell'ascesa allegorica alle vette aveva tratto quasi una sorta di religione laica, convinto che nella radiografia delle montagne si potesse leggere in filigrana il miracolo estetico, e stratificato, del libro della Natura. E qui, per lo meno a livello estetico, tutto è più che chiaro: nel periodo medievale e bizantino la montagna non è che un simbolo orrifico da fuggire, o la sede temibile del Sacro (leggersi la Bibbia, o le icone, per capire che tutto avviene in alto: Sinai, Sion, l'Oreb, il Golgota, il Calvario. Il monte della consegna delle Tavole della Legge). E in queste tavole, come suggerisce l'Ottani Cavina, nel monumentale catalogo Skira: «Le montagne sono piuttosto rocce, scheggie simboliche di luoghi impraticabili», che pullulano di mostri e di paure. Come aveva annotato Zeri: «un luogo mmemonico, reso con la stringatezza di un sigillo»: un artificio retorico, che deve evocare agli analfabeti luogo impervio, impraticabile, dannato. Come nella celebre immagine proustiana dei fiori giapponesi rinsecchiti, che immersi nell'acqua si dilatano e rifioriscono, ecco che qui, da quei petrosi sassi anchilosati, si distende l'immensa avventura della scoperta alpestre (dal momento che è in gioco soprattutto l'immaginario razionale, illuministico, occidentale delle vette nostrane. Al massimo una fuga nei deserti western e montuosi d'America. Ma non hanno diritto di replica le nebbie mistiche della pittura zen. Qui risuonano semmai gli echi ebbri dello Zarathustra nicciano, il trionfalismo innevato del Manfred di Byron e le magniloquenze sonore dell'Alpensymphonie di Strauss). Prima la paura, la difesa, poi la sorpresa, l'investigazione. Con Petrarca, primo «scalatore» umanista, che rompe gli steccati medioevali dell'hortus conclusus, e sceglie di vedere il mondo dall'alto, a volo d'uccello. Ma subito ne ridiscende, turbato, avvolto nel mantello della sua «jocondissima solitudo». Mentre Bernini, in viaggio verso Parigi, ferma i suoi carriaggi e si dispone trionfale a riprodurre quel miracolo di spettacolo, tra la stizza infreddolita dei suoi compagni d'avventura. La montagna non è più quell'organismo vivente e peccaminoso, che il Diluvio Universale ha sovvertito, quasi una gibbosità imbarazzante (con le mammelle pruriginose dei vulcani, che sputano veleni). È come il teschio trasparente, palpabile del mondo, che va indagato, visitato, tastato (domandarsi semmai perché il Seicento barocco abbia come occultato questo capitolo). Infatti è il Settecento illuminista che privilegia quest'annoso enigma, trasformandolo in un «teatro anatomico all'aperto». Ed è difficile dire (teoria del sublime kantiano alla mano) se sia la scienza ad aprire gli occhi all'arte o viceversa. Quando, studiando le mappe, con uno scatto dello sguardo, nel 1911, Alfred Wegener si accorge per primo del fenomeno della deriva dei continenti, non mette forse in atto un tipico esercizio da teoria purovisibilista? Che quando ti ha svelato che quella coppa nasconde un profilo d'uomo, tu ora non vedi altro che la sagoma d'uomo.