sabato 17 gennaio 2004

dialetti e lingua
il toscano come lingua nazionale

Corriere della Sera 1.1.04
Come cambia la nostra lingua: un nuovo studio ricostruisce la storia dei dialetti e il loro ruolo nella formazione dell'identità nazionale
E alla fine anche Roma imparò a parlar toscano
di CESARE SEGRE


Si parla molto di lingua e dialetto, in questi tempi. Il primo impulso è venuto da poeti e narratori, specialmente poeti: questi ultimi, a partire da Virgilio Giotti e da Pasolini, hanno dato l'avvio a una grande stagione di scrittura in dialetto, con risultati tra i più alti degli ultimi decenni. D'altra parte, ci si accorge che nella nostra lingua sono in corso forti cambiamenti, e si vorrebbe avere una bussola. La pubblicistica sull'argomento non è povera. Tra i recenti volumi va segnalato uno di Corrado Grassi, Alberto Sobrero e Tullio Telmon, Introduzione alla dialettologia italiana (Laterza, pagine 254, 18), a destinazione universitaria, ma consigliabile a qualsiasi persona colta. Il dialetto è il migliore punto di partenza, dato che i dialetti precedono, nella storia, le lingue: quella italiana ha la sua base, com'è noto, nel dialetto toscano come lo usarono Dante, Petrarca e Boccaccio. In più, è attraverso lo studio dei dialetti che la cosiddetta "geografia linguistica" ha messo in luce molte modalità dello sviluppo degli idiomi, e ora permette di osservare i cambiamenti che si verificano. Lo svelto capitolo iniziale di questo volume traccia le fasi principali della formazione dei dialetti italiani e dell?affermazione, dapprima letteraria, molto più tardi nell'uso quotidiano, del toscano come lingua nazionale.
Per farsi un'idea di questa marcia quasi trionfale, basta pensare che al momento dell'unità d'Italia conosceva l'italiano meno del dieci per cento dei cittadini, tutti dialettofoni, mentre oggi sono quelli che parlano il dialetto in famiglia a costituire una percentuale modesta, dall?otto al ventisette per cento, secondo le regioni.
Può risultare affascinante esaminare, con l'aiuto di cartine, la distribuzione dei dialetti italiani e conoscere i motivi di tante differenze. Ci si rende conto così della serie di successive migrazioni che portarono in Italia prima popoli mediterranei (come, da Nord a Sud, i Liguri e i Reti, i Piceni e gli Etruschi, i Sardi e i Sicani), poi indoeuropei (i Celti e i Venetici, gli Osco-Umbri, i Latini). Sono appunto i Latini che a poco a poco s?imposero sugli altri, sicché la loro lingua divenne quella di tutta l'Italia geografica. Gran parte dei linguisti ritiene che le differenze tra i dialetti italiani risalgano appunto alle tracce lasciate da questi idiomi, prima di estinguersi, nel latino delle varie regioni (si parla di sostrato, quasi uno strato soggiacente alla superficie latina). Ma questo latino già differenziato geograficamente fu ancora modificato, prima di trasformarsi nei dialetti italiani, dalle lingue di successivi invasori, germanici o greci o arabi, che, senza riuscire a imporre le proprie parlate, influirono, zona per zona, sul latino già in trasformazione (e allora si parla di "superstrato"). Guerre di lingue, prodotte dalla storia, cui conseguirono fatti di grande rilievo culturale.
Grassi, Sobrero e Telmon danno pure una caratterizzazione dei principali gruppi dialettali italiani: quello settentrionale e quello centromeridionale (con la Toscana in una posizione privilegiata) e anche dei singoli dialetti, enucleando gli elementi caratterizzanti. Chiunque abbia familiarità con un dialetto ne riconoscerà, per così dire, il ritratto. E naturalmente si soffermano, gli autori, su quegli idiomi, come il sardo e il friulano, che costituiscono dei piccoli sistemi autonomi, con propri dialetti. I raggruppamenti dei dialetti sono anch'essi un portato della storia e della cultura, che in qualche caso sposta situazioni che parevano assodate: così Roma, dai secoli XV e XVI, è diventata, per migrazioni interne, meno "meridionale" e più "toscana".
Alla fine, il volume ci porta alla nostra attività di parlanti. Per la quale abbiamo a disposizione due tipi di scelte linguistiche, combinate in modo complesso: quelle che stanno tra gli estremi lingua-dialetto e quelle che pertengono alla vita associata, dato che ci esprimiamo diversamente secondo gli interlocutori e il genere di discorso che formuliamo (scritto od orale, solenne o quotidiano o familiare, ecc). Col venir meno dei dialetti, il secondo tipo di scelte si arricchisce delle ultime tracce lasciate da questi entro i cosiddetti "italiani regionali", che hanno come fondamento l'italiano standard, ma assorbono dal dialetto particolarità di pronuncia, intonazioni e una piccola parte del lessico. È per questo che comprendiamo subito da che parte d'Italia, o persino da che regione, provengano i nostri interlocutori. Questi italiani regionali costituiscono una riserva espressiva e si legano alla nostra individualità storica.
Però l'accoglimento nella lingua dell'uso di dialettalismi, come di neologismi, specie burocratici, e di parole inglesi, produce spesso dei problemi di comunicazione e suscita reazioni. L'ultima in ordine di tempo quella di Lucio D'Arcangelo (Difesa dell?italiano, ed. Ideazione). Reazione comprensibile, ma idiosincratica e politicizzata, così da sottostimare le motivazioni, ben note, dei fenomeni. D'Arcangelo sciorina un repertorio di affermazioni generiche di linguisti e giornalisti, ma non si addentra in analisi sistematiche; del resto detesta i dialettologi e i sociolinguisti, che queste analisi le hanno già fatte. Sarebbero loro, sembra di capire, che, in combutta con i "progressisti" (parrebbe si alluda particolarmente a De Mauro, non citato, se ho visto bene), vogliono "minare le basi storiche della nostra lingua" (ma non si accenna alla risibile azione, anche militante, della Lega, per rinvigorire i dialetti). E meno male, dice, che c'è Mediaset, dato che la Rai diffonde subdolamente il romanesco.
Il libro, frutto di un'informazione ampia ma farraginosa e unilaterale, dà notizie mirabolanti: per esempio, che solo il 59% dei Francesi parla francese (e gli altri?); oppure che i principi puristi e le teorie manzoniane sono affini. E informazioni imprecise: è vero che il fascismo, dapprima, non avversò i dialetti; ma va aggiunto che ne fu più avanti nemico e persecutore. Gli segnaliamo poi che "verdezza" e "giallezza", da lui ipotizzati come eventuali, futuri mostri linguistici, esistono sin dal XIV e XV secolo, il primo nel Boccaccio: bastava guardare un dizionario storico.
D'Arcangelo, non liberale nè liberista, ohibò, nei riguardi della lingua, vorrebbe interventi dall'alto. E sembra vagheggiare una grammatica e un vocabolario "ufficiali": un'eresia per i linguisti, consapevoli del continuo evolversi della lingua, e dell'impossibilità di decretare, per ogni fatto fonetico o lessicale in uso, quali siano quelli da sancire o meno. Le buone grammatiche, come quella dei Lepschy, precisano situazioni e tendenze, non più. Alla fine però l'autore riconosce che in fatto di lingua le imposizioni sono inefficaci, e si riduce a proporre l'istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua, per elaborare "una politica linguistica coerente con i principi delineati in questo libro". Insomma, si sente già il dominus del nostro futuro linguistico. Che Dio ci scampi, anche perché è facile immaginare che questo Consiglio potrebbe concludere ben poco. Qui si tratta di studiare, capire e proporre, come già fanno da tempo i ricercatori universitari e l'Accademia della Crusca, non di dettare norme astratte e inapplicabili in democrazia.