Liberazione 18.1.04
Nonviolenza, l'arma più forte
di cui oggi disponiamo
di Alessandro Curzi e Rina Gagliardi
L'intensa discussione, che si va sviluppando da molti giorni sulle colonne del nostro giornale, suscita interesse e attenzione anche al di là delle nostre fila, nella sinistra, nel movimento, nel sistema dell'informazione.
Ne prendiamo atto con soddisfazione: è una prova in più che questo dibattito "molteplice" - anzi, questi dibattiti che si susseguono e, talora, si intrecciano su questioni politiche e ideali di prima grandezza - non è mosso da spirito autoreferenziale. E' un confronto vivo che ha a che fare, non a caso, con la politica viva del presente, dove si misurano non solo posizioni diverse, ma culture politiche, esperienze e spesso "vissuti" tra di loro lontani. Noi, per parte nostra, abbiamo cercato di garantire sia la pari dignità di tutte le voci, interne ed esterne a Rifondazione, che hanno voglia di farsi sentire, sia di contribuire, per come possiamo, ad una "buona dialettica": ovvero ad una discussione che, senza pensare a sintesi oggi impossibili, ci arricchisca, ci aiuti a fare un passo avanti, nella comprensione e nella chiarezza reciproca.
Con questo articolo, vogliamo anche noi dire la nostra, misurandoci con quel nodo teorico-politico, violenza e nonviolenza, che appassiona non da oggi il movimento operaio e la sinistra.
E diciamo subito - da militanti comunisti, diversi per sesso e generazione, per pratica di vita e riferimenti culturali - che l'opzione strategica pacifista e nonviolenta, che Fausto Bertinotti ha avanzato e Pietro Ingrao ha rilanciato proprio su "Liberazione", ci persuade profondamente. Ovvero: è la stessa scelta che abbiamo maturato in questi anni, nel fuoco dei conflitti drammatici che hanno devastato il mondo, nel dipanarsi concreto dell'impegno.
Non è in questione, s'intende, un "assoluto" che, chissà perché, molti compagni vedono o paventano tutte le volte che viene dichiarata la necessità di una pratica nonviolenta: per noi laici e comunisti non esistono mai "assoluti" o fedi astratte, al di là del tempo e dello spazio. E' in questione, ci pare, un'idea della politica e - se la parola non è troppo grossa - della rivoluzione del futuro: nell'era della guerra globale, infinita e preventiva, la violenza non è più una via di autentica liberazione dei popoli, delle classi e delle persone e, al tempo stesso, non è più uno strumento capace di garantire la "vittoria finale". Nell'era, insomma, della spirale guerra-terrorismo, che concerne il "qui" e l'"ora" del capitalismo globalizzato, il terrore è tutto dell'avversario e dei suoi apparati colossali di sterminio e di morte: gli appartiene fino in fondo, perfino come vocazione e come nuova idealità. Ce lo spiega bene Kagan, teorico dei neocons nordamericani, nel suo lucido pamphlet "Il Paradiso e il Potere", quando contrappone la civiltà dell'America fondata sulla forza militare e sullo spirito di aggressione alla civiltà dell'Europa, continente "imbelle" e vocato ai diritti sociali piuttosto che alle armi.
Questa nostra persuasione è il risultato, anche e soprattutto, dei nostri rispettivi percorsi di vita. Noi non siamo nati pacifisti: abbiamo creduto nella "guerra giusta" e nel valore liberatorio della guerra e della guerriglia di popolo. Uno di noi ha partecipato, giovanissimo, alla Resistenza: ha impugnato le armi, da partigiano, ha praticato l'antifascismo. E non solo non se ne pente, ma continua ad andare orgoglioso del proprio passato. Una di noi ha condiviso, finché è stata giovane, le lotte, anche quelle "dure" dei movimenti occidentali e quelle armate dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. E non ha nulla di cui pentirsi. C'è stata un'epoca della nostra storia nella quale la violenza delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del potere, ma anche la risposta più radicale, più in sé rivoluzionaria, più efficace: la Resistenza ha vinto, la lotta del popolo vietnamita ha vinto, il movimento di liberazione dei popoli colonizzati ha vinto. Non si tratta certo oggi di proiettare su questo passato le idee che abbiamo maturato nel presente: questo sì sarebbe puro "pentitismo", opportunismo oltre tutto antistorico. Si tratta di ben altro: far tesoro di quelle esperienze, anche alla luce di alcuni, forse non casuali, esiti negativi, mettendone in causa il valore assoluto e l'attualità schematica.
Oggi, insomma, sentiamo la necessità di una strada nuova, di nuovi percorsi: un ciclo della storia si è chiuso, con il ‘900, un nuovo ciclo può avviarsi. L'immagine che abbiamo ancora negli occhi è quella dei 110 milioni di persone che nello stesso giorno di febbraio sono scese in piazza, in tutto il mondo, contro la guerra di Bush. Quelle masse, che il "New York Times" ha definito la "seconda potenza mondiale", hanno fatto paura, davvero, ai nostri avversari imperiali. Non sono riusciti, no, a impedire la guerra: ma hanno pur segnato un gigantesco salto di qualità, di coscienza critica, di consapevolezza, di soggettività. Un patrimonio immenso, anche dal punto di vista della forza, che a tutt'oggi domanda alla politica una risposta adeguata.
La nonviolenza, dunque, come pratica alta del conflitto - come opposto della passività o della rassegnazione - è oggi l'arma più forte di cui disponiamo. La nonviolenza, anche, come "smilitarizzazione" delle nostre coscienze e della politica (che continua, proprio nel suo linguaggio tutto nutrito di "tattica", "strategia", "schieramento", "obiettivo", "battaglia", a mostrare il suo profondo spirito bellico), nella sua connessione profonda con la società altra che vogliamo costruire.
Non siamo "anime belle", siamo ahimè fin troppo contaminati con le brutture che ci circondano, e conosciamo tutte le sottigliezze della politica e della Realpolitik: ma non è l'ora di cominciare a colmare l'abisso che separa i nostri valori generali dalle nostre pratiche? Ma davvero possiamo continuare in eterno a propugnare una distanza - così "assoluta" - tra i fini che ci proponiamo e i mezzi che mettiamo in atto per realizzarli? Torna a proposito, qui, la questione del terrorismo, dal quale siamo sempre stati lontani e che mai ci è appartenuto, anche per le ragioni che osservava ieri Lidia Menapace.
E' vero, sì, che i nostri avversari battezzano sotto la dizione di "terrorismo" anche ciò che è pura resistenza all'invasore. E forse hanno ragione quei compagni che dicono che ci sono luoghi del mondo in cui la nonviolenza è una pratica difficile, quasi impossibile, se non un lusso: infatti noi non ci permettiamo di criticare coloro che, di fronte ad aggressioni od invasioni armate, reagiscono anche impugnando le armi.
La nonviolenza, lo dicevamo, non è un imperativo categorico. E tuttavia, anche nel passato recente, ci sono esempi significativi sui quali riflettere. La prima Intifada palestinese, quella nonviolenta, con i ragazzi che si opponevano alla potenza dei carri armati israeliani con le fionde e con i sassi, conquistò nel mondo un consenso enorme alla causa dell'indipendenza nazionale palestinese: avrebbe potuto vincere, se l'Europa, invece di limitarsi ad applaudire, fosse intervenuta ed avesse messo in campo la sua potenza politica.
Oggi, quali sono le prospettive concrete di vittoria della lotta e della guerriglia armata nel Medio Oriente? A parere quasi unanime, nessuna. E quegli attentati suicidi - come l'ultimo della giovane madre che voleva essere martire - possiamo sì distinguerli dal terrorismo e battezzarli "azione di guerriglia militare", se hanno soldati nemici come bersaglio. Ma possiamo tacere del loro carattere feroce, disperato, perdente? Quando una lotta di liberazione entra in contrasto così totale con i valori della vita, della speranza, della costruzione, quando il sacrificio di sé è ricercato come valore e perfino simbolo positivo, vuol dire che in essa la dimensione della tragedia è diventata dominante. Vuol dire, anche, che forse non si è abbastanza riflettuto sul fatto che, anche e soprattutto là dove l'oppressione e la prevaricazione sono massime, la violenza del potere, introiettata e metabolizzata senza anticorpi, produce una violenza distruttiva uguale e contraria.
L'aveva scritto Marx, un secolo e mezzo fa: la nostra rivoluzione dovrà essere un processo di lunga durata, di "rivoluzionamento" dei rapporti economici e sociali esistenti, anche perché soltanto in un processo di lunga durata potremo liberarci dal "sudiciume" che la società del capitale ha disseminato in ciascuno in noi. Era già questa un'idea di rivoluzione nonviolenta, di comunismo. Che oggi, soltanto oggi, possiamo cominciare a praticare. Almeno, a provarci.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»