lunedì 8 marzo 2004

Cina

Tra i nuovi ricchi di Shanghai in affari con le aziende di Taiwan
Le divisioni ideologiche cancellate dal business
I rapporti tesi tra Cina e l'ex Formosa si stemperano solo quando si parla di affari
E il marketing mette d'accordo gli industriali di Taipei con i comunisti
Mezzo milione di taiwanesi abitano e lavorano a Shanghai e hanno un ruolo chiave nel boom economico che sta vivendo
La Cina è diventata oggi la seconda destinazione di capitali mondiali dopo gli Stati Uniti
di FEDERICO RAMPINI


SHANGHAI - Il ristorante ha una lista dei vini di tutto rispetto ma il mio ospite non la apre neanche, la allontana da sé con fastidio. Si è portato da casa due bottiglie della sua leggendaria cantina che devo assolutamente assaggiare, un Chateau Margaux dell´89 e uno champagne Carneros Reserve Taittinger della Napa Valley californiana. Tony Yeh, presidente della Gourmet Foodstuff Shanghai Company, è un noto perfezionista, se non lo fosse non avrebbe conquistato in pochi anni il quasi-monopolio nei negozi di gastronomia di lusso a Shanghai. Un business in vertiginosa espansione, chi lo avrebbe detto vent´anni fa: sfamare i nouveaux riches. Il ristorante giapponese Shintori dove ci incontriamo per la prima volta a cena - i tempi cambiano ma il rito alimentare rimane un obbligo sociale per frequentare i businessmen cinesi - è affollato da un campione significativo della nuova élite di Shanghai. Ricavato nei magazzini di una fabbrica abbandonata, a due passi dal vecchio quartiere coloniale francese, è il frutto di una ristrutturazione post-moderna che evoca il design di certi loft newyorchesi a Soho e Tribeca. La gastronomia - nouvelle cuisine nipponica - i completi Armani e le costose coiffures del pubblico (età media 35 anni) aumentano lo spaesamento: potremmo essere in un locale esclusivo di Manhattan o San Francisco. Oltre che per la qualità dei suoi vini, Yeh mi colpisce per un´altra ragione. Il suo passaporto. È un cittadino di Taiwan, che a Shanghai ha trovato il nuovo paradiso terrestre del capitalismo. Cerco di sondarlo sulle prossime elezioni-referendum di Taiwan che fanno crescere la tensione con il governo di Pechino, e tra la Cina e gli Stati Uniti. Liquida la mia curiosità con due battute qualunque su «politici corrotti che usano il nazionalismo a fini interni». Non specifica neppure a chi voglia alludere. Ha solo voglia di chiudere rapidamente su questo argomento e parlar d´altro.
Al nostro tavolo c´è un altro tycoon taiwanese che ci ha raggiunti al ristorante su un camioncino blindato scortato da guardie del corpo. La sua fama arriva fino a Las Vegas, dove ha una "linea di credito" sempre aperta - dieci milioni di dollari - nei casinò. È Tsai Eng Meng, fondatore, azionista di maggioranza e presidente della Want Want Holdings, impero alimentare con sedi a Taipei, Singapore e Shanghai. Nella sola Cina continentale lui ha 60 fabbriche alimentari e ventimila dipendenti. Per il suo ultimo investimento locale ha trovato un partner d´eccezione: l´Esercito di Liberazione popolare, cioè le forze armate cinesi, con cui si è messo in società per produrre latte in polvere da fornire a tutte le mense dei soldati. Dice di andare perfettamente d´accordo con i generali, che secondo lui imparano presto i criteri dell´economia di mercato. Tsai Eng Meng padroneggia sulla punta delle dita tutte le arti del marketing occidentale, per i cinesi sa produrre merendine e snack studiati per diversi categorie di consumatori, come una grande multinazionale occidentale cambia i nomi delle sue marche e i messaggi pubblicitari, a seconda che i suoi prodotti siano destinati alle campagne o al ceto medio urbano di Pechino e Shanghai. Osserva con preoccupazione la moda dilagante nelle metropoli di fare la spesa nella grande distribuzione di tipo occidentale: «Gli ipermercati Carrefour mi fanno impazzire, per vendere a loro i miei margini di profitti scompaiono». Ma è un imprenditore che guarda lontano. Si è già infilato in un business del futuro, cliniche e ospedali privati. I medici cinesi, spiega, sono i migliori del mondo, ma la sanità pubblica non può più soddisfare i milioni di ricchi anziani che popolano questo paese. Invecchiamento demografico e crisi del welfare: benvenuti tra noi.
Tony Yeh e Tsai Eng Meng sono due campioni di un fenomeno sorprendente che sta dietro il boom economico di Shanghai, cioè il ruolo chiave di Taiwan. Mezzo milione di taiwanesi abitano e lavorano in questa città, non tutti tycoon miliardari come i miei due commensali, ma comunque portatori di capitali e know how. Gli alti e bassi della tensione politica "nello Stretto", come si suol dire, cioè fra Pechino e Taipei, non hanno importanza nella sfera economica. Il denaro non ha odore, i taiwanesi qui sono accolti a braccia aperte. Capitalisti o manager, finanzieri o ingegneri, molti di questi taiwanesi del resto non fanno che tornare a casa. Shanghai, la culla storica del capitalismo cinese, fu abbandonata da molte famiglie borghesi che fuggirono a Hong Kong e a Taiwan dopo la rivoluzione comunista del 1949. I capitalisti taiwanesi che oggi tornano a fare ricca questa città spesso sono figli o nipoti di quegli emigrati. La Cina oggi è diventata la seconda destinazione di capitali mondiali, dopo gli Stati Uniti, ma i primi a investire nella madrepatria sono i cosiddetti «cinesi etnici», una diaspora di 60 milioni di emigrati ricchi, dal Sudest asiatico all´America, taiwanesi in testa.
L´esempio più clamoroso della fusione tra capitalismo taiwanese e shanghainese - in nome degli affari e a dispetto delle ideologie - è l´azienda Grace Semiconductor che visito nel parco tecnologico di Zhangjiang, a metà strada fra Shanghai e l´aeroporto internazionale di Pudong. Appena tre anni fa a Zhangjiang c´erano solo campi di contadini, ora è denso di capannoni industriali, centri di ricerca e design, sedi di multinazionali. La Grace Semiconductor ha cominciato a produrre solo nel luglio scorso microchip per computer e già cerca alleanze strategiche con colossi come Intel, Ibm; punta a quotarsi alle Borse di Hong Kong e New York; ha raccolto 1,6 miliardi di dollari di capitali. Il suo direttore finanziario, Daniel Wang, è un cinese-californiano, sbarcato a Shanghai direttamente dall´industria hi-tech della Silicon Valley, e affascinato dal suo paese d´origine: «Nella produzione manifatturiera in questo momento nessuno può battere il rapporto qualità-prezzo che offriamo noi cinesi: "We are the best". Dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Corea, da Taiwan, prima o poi il grosso dell´industria è destinato a spostarsi qui». La radiografia di quest´azienda è illuminante. Il presidente Yeshun Dong è il fiduciario dei due soci-fondatori, tuttora maggioritari, che formano una coppia singolare: uno è Winston Wang, figlio del più grande tycoon di Taiwan; l´altro è figlio di Jiang Zemin, l´ex presidente della Cina che tuttora occupa una carica chiave (dirige la commissione delle Forze armate) e conserva una forte influenza ai vertici del partito comunista. Questo non impedisce alla Grace di aver scelto come sede sociale il paradiso fiscale delle isole Caimane. «È più pratico per ottenere una rapida quotazione alla Borsa di New York» commenta candidamente il presidente.
L´alleanza tra il figlio dell´ex numero uno della gerarchia comunista cinese, e il figlio del più ricco magnate di Taiwan - cioè l´isola che viene difesa con le armi degli Stati Uniti - non stupisce nessuno a Shanghai. Nel clima da febbre dell´oro che eccita questa città tutto è permesso, o quasi. Le famiglie della nomenklatura politica hanno da tempo piazzato le loro pedine sul grande gioco del Monopoli capitalistico. La settimana scorsa aprendo la legislatura a Pechino il primo ministro Wen Jiabao ha usato parole severe contro l´aumento delle diseguaglianze sociali nella Cina di oggi, lo sfruttamento della manodopera immigrata dalle campagne, la latitanza dello sviluppo nelle zone rurali. Wen ha lanciato un piano per riequilibrare la crescita, raffreddando gli eccessi speculativi che arricchiscono Shanghai e la zona costiera. Una parte del problema è dentro il suo stesso partito comunista, che in questo boom ha investito molto: in senso figurato e in senso letterale.
(2 - continua)