lunedì 8 marzo 2004

due recensioni di Simona Maggiorelli
il Nudo, a Bologna e il Perugino, in Umbria

Europa quotidiano
Perché dopo Picasso si fermò la ricerca di passioni nel nudo
di SIMONA MAGGIORELLI da BOLOGNA


Il Nudo disvelato. La progressiva scoperta del corpo nell’arte dal ‘700 a oggi in un’ambiziosa mostra alla Galleria di arte moderna. Non solo nudo come allegoria di virtù astratte come nella statuaria eroica del neoclassicismo.
Non solo presenza solida dai contorni nitidi, come nel realismo piatto di un Courbet che alla metà dell’Ottocento ancora faceva scandalo con le sue procaci popolane, raccontate in ogni dettaglio. Ma anche, finalmente, come corpo in movimento, a partire da Rodin: come fusione di vissuto interiore e forma, moto di affetti che illumina un’espressione.
E oltre. Arrivando a Cézanne, alle sue Bagnanti, che non sembrano ricalcare alcuna immagine della memoria cosciente, che non sono il ritratto di modelle in posa. Figure di donne e uomini appena accennate nel riverbero della luce d’estate, immagini raccontate attraverso il cilindro, la sfera , il cono, per alludere, forse, a qualcosa di più profondo della visione retinica e razionale. Quasi aprendo la strada alle scoperte del cubismo.
Non a caso sia Matisse che Picasso possedevano una versione delle Bagnanti e lo stesso Matisse ammetterà che quel quadro acquistato da Vollard era stato per lui un irrinunciabile sostegno "nei momenti critici della mia avventura di artista". E in questa sterminata mostra bolognese organizzata dal direttore Peter Weiermair con più di 400 opere, i tre quadri di Cézanne, due edizioni di Bagnanti provenienti dal Musée d’Orsay e una sorprendente Leda dal museo di Wuppertal, insieme a alcune tele di Picasso e di Matisse, rappresentano un punto di attrazione fortissimo, verso il quale precipita tutto il percorso delle sale, cronologicamente ordinate, organizzate per “ismi”, che didatticamente conducono il visitatore dalla perfetta rappresentazione della grazia di Canova e Thorvaldsen, ai nudi statuari di David e Ingres.
E, varcata la soglia dell’Ottocento, dalle descrittive immagini naturalistiche di Courbet alle rassicuranti e ferme bellezze di Renoir, al voyeurismo di Degas e alle rappresentazioni sociali e di costume di Toulouse Lautrec.
E poi su, su, attraverso l’erotismo inquieto e privato dei disegni di Klimt e quello travolgente delle sculture in bronzo e degli acquerelli di Rodin che lasciano trasparire in pochi rapidi tratti improvvise accensioni di intuizione e desiderio, che nel rappresentare il "divenire di corpi in movimento – come notava Simmel – rende sensibile l’interna vitalità delle figure che rappresenta". Ma eccoci al vero punto di svolta e di rottura nella rappresentazione del nudo realizzata – come si diceva a partire da Cézanne – da Picasso, ma anche da Matisse, qui a Bologna rappresentato dall’essenziale e potente Nudo blu di Basilea. Tre opere bastano.
Nella composizione quasi cubista de L’offerta di Wuppertal e nell’acceso colorismo dell’edizione di Madrid del Pittore e la modella Picasso rende chiaro, che nell’era della fotografia, non è più la rappresentazione mimetica ciò che viene richiesto all’artista, ma qualcosa di più intimo e profondo, un vissuto interiore che si può esprimere anche con tratti a tutta prima sommari, che trascurano la meticolosa precisione del disegno, cercando la via di un’astrazione che non perde il rapporto con l’umano, ma lo trasforma in un’immagine più regressiva e profonda degli affetti, delle passioni che l’altro, diverso da sé, suscita. Ma a questo punto del percorso, la mostra bolognese ci mette davanti a un fatto, solleva una domanda sul perché dopo Picasso questa ricerca si sia interrotta.
Già il Futurismo, a dire il vero, deraglia e devia. Weiermair accoglie un monumentale e metallico nudo di Prampolini a documentare il proclama futurista: "Combattiamo contro il nudo in pittura, specie il femminile sinonimo di passività... meglio gli angoli di una tavola, le linee rette di un fiammifero che seni e cosce". Ma uno stop fortissimo viene anche dal surrealismo, da Max Ernst, Man Ray, Dalì con le loro visioni mostruose di arti animali innestati su corpi di donna. Nell’espressionismo di Dix e Grosz qualcosa si sgretola, sull’orlo dei massacri della guerra, nell’orrore della Germania nazista.
Ma c’è forse anche dell’altro. Il nudo diventa mostruoso, immagini femminili deformate, figurine feroci.
Più in là la visione più forte di un tormentato rapporto con la rappresentazione dell’eros e del nudo la rassegna bolognese la offre scandagliando gli ultimi quarant’anni di storia dell’arte. Fra i corpi martoriati della body art: volontà di effrazione violenta, rivendicazione del corpo come bruta materialità plasmabile.
Le visioni angosciate del corpo in putrefazione e in trasformazione mostruosa firmate Bacon. Fissazioni ossessive su immagini di cadaveri in giovani artisti come Boltanski, di teste e arti mozzi nella transavanguardia, la nudità scabra e inerme di uomini capovolti in Baselitz.
Unica scappatoia a questo cimitero delle immagini, appena qualche anno indietro, le figure lucide e razionali di Pistoletto applicate su superfici specchianti e le veneri di Paolini reinmesse nel moderno, come citazione, ma che drammaticamente denunciano una perdita di senso. In un Occidente dominato dal Logos, ragione e religione sembrano andare a braccetto nel negare eros e femminilità.
Un’ipotesi più che drammatica accompagna il finale di questa mostra, lasciandoci con molte domande e poche risposte, con il tarlo di una ricerca ancora da continuare.
La mostra "Il nudo fra ideale e realtà, pittura, scultura e fotografia" resterà aperta fino al 9 maggio.

Europa quotidiano
DA OGGI IL PERUGINO IN TUTTA L’UMBRIA
Il divin pittore che piacque a tutti

Cambiò l’eredità gotica della pittura medievale con la razionalità, la prospettiva, l’ampiezza, teso a realizzare un’immagine pacificante del mondo umano e sovraumano, in una nitidezza cristallina. Anche per questo continuò a piacere e ad essere impresario della sua “produzione”, quando a Roma, a Firenze, a Venezia altri geni della pittura stavano ormai trasferendo il fine dell’opera d’arte dalla godibilità alla problematicità del reale, e annunciavano la maturità del Rinascimento.
di SIMONA MAGGIORELLI da PERUGIA


Dopo le figure quasi incise della pittura gotica, senza movimento, angolose, la pittura di Perugino allarga il respiro verso paesaggi e orizzonti cristallini, figure morbide, addolcite negli sguardi e nei gesti. Dopo le composizioni addensate e ansiose di un medioevo che in un’attardata Umbria ancora per tutta la prima metà del ‘400 continuava a impigliare il talento degli artisti locali, Pietro Vannucci, detto il Perugino, segna un passaggio netto verso un Umanesimo più calmo e sicuro, fatto di proporzioni, armonie prospettiche, figure in primo piano, tratteggiate con un disegno definito ed elegante. Il riscontro dei contemporanei fu immediato.
Dopo secoli tormentati e bui, la pittura di Perugino fu quasi una sorta di dolce calmante.
E se anche non era del tutto vero che fosse "il meglio maestro d’Italia" come scriveva Agostino Chigi in una lettera del 1500, fatto è che "delle opere sue – come riporta il Vasari – si fece mercanzia da molti, che le mandarono in luoghi diversi, innanzi a che venisse la maniera di Michelangelo".
Nato da una famiglia ricca e in vista di Città della Pieve, Perugino, soprattutto, si seppe ben amministrare, andando nella seconda metà degli Sessanta del Quattrocento a scuola a Firenze dal Verrocchio (lo stesso pittore da cui era a bottega un giovanissimo Leonardo), iscrivendosi prestissimo all’accademia di San Luca, la corporazione dei pittori, e viaggiando fra Roma, Venezia, Firenze e Napoli a caccia di commissioni pubbliche e ecclesiastiche. Per un lungo periodo riuscì a tenere contemporaneamente bottega a Perugia e a Firenze, dove ebbe come allievo un giovanissimo Raffaello.
Diventando in questo modo uno dei primi esempi di pittore “imprenditore”nella storia dell’arte italiana. Il risultato: una produzione vastissima di opere oggi conservate non solo in Italia ma anche nei musei di Londra, Parigi, Vienna, sparse fra le maggiori capitali europee e città d’Oltreoceano. Tanto che per ricomporre una buona parte del corpus del Perugino in un unico percorso espositivo, la Soprintendenza e le varie Gallerie pubbliche dell’Umbria hanno dovuto lavorare parecchi anni. Il risultato di questa lunga chiamata a raccolta è visitabile da oggi: sei mostre che aprono in contemporanea, in dodici luoghi diversi dell’Umbria, dalla Porziuncola nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Assisi, a Foligno, da Spello a Panicale, a Perugia. Un articolato itinerario d’arte che diventa anche un invito alla riscoperta di paesi medievali e arroccati, di paesaggi ancora intonsi. Fulcro di questo fascio di proposte che vanno sotto il titolo Perugino il divin pittore e curate da Clara Cutini,Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini, la mostra ospitata fino al 18 giugno nella Galleria Nazionale dell’Umbria, da poco riaperta in tutte le sue sale, dopo un restauro durato quasi dieci anni. Affacciato su corso Vannucci che attraversa la città di Perugia, quasi dividendola a metà, c’è Palazzo dei Priori, imponente edificio medievale in travertino. Ai piani alti, si trova la Galleria. Un criterio cronologico ordina le opere. Effetto sobrio, linee essenziali, geometriche, un gioco ottico di chiari e scuri a fare da cornice scenografica. Ma non tutto è noto e ordinato. A scardinare la sensazione del già conosciuto, una serie di opere inaspettate, recuperate dai magazzini e poi una serie continua di capolavori, dal polittico Albani Torlonia, testimonianza del periodo romano e dell’impegno di Perugino nella Cappella Sistina, alla Pala Chigi ricomposta nella sua struttura originale, con i pannelli provenienti dal Metropolitan Museum di New York, a pezzi celebri e mai visti in Italia dal vivo, come il delicato San Sebastiano dell’Ermitage.
Apre la fila l’Adorazione dei magi del 1470, una tela emblematica, che ancora risente delle influenze del periodo fiorentino, della lezione di Piero della Francesca e di Verrocchio nelle solide volumetrie e nel tratto nitido del disegno, ma anche della lezione fiamminga nella cura quasi iperealistica delle vesti e dei particolari. Ma c’è già, qui nei volti,quel velo di pacata malinconia che poi connoterà tutte le Madonne del Perugino. Un tono, misto di dolcezza e di rassegnazione, che è la nota risonante, la cifra più intima e personale del pittore di Città di Castello. La si ritrova già nella bionda presenza femminile che il pittore mette accanto al Cristo di una scura e austera Pietà con San Girolamo e la Maddalena datata 1473: opera della svolta, primo segnale di una maggiore libertà creativa conquistata. E poi nei piccoli dipinti della Nicchia di San Bernardino, una delle opere più discusse del Quattrocento quanto a paternità e attribuzione, ma in cui appare inconfondibile il segno di Perugino nella costruzione dello spazio, nel dare respiro, sullo sfondo, a un paesaggio sfumato e moderno, diversissimo da quelli ancora goticheggianti dei suoi colleghi umbri. Una cifra di morbidezza e una soffusa luce di malinconia sui volti ritratti che si andrà intensificando negli anni. Come raccontano le opere della fase matura del pittore, nella Sala Maggiore della Galleria.
Opere come la Pala di Monteripido del 1504, dove qualcuno rintraccia la mano di un giovane Raffaello o il Polittico di Sant’Agostino, grande macchina d’altare a più facce: i colori non sono più quelli smaltati e contrastanti della fase giovanile, hanno assunto un tono più tenue, più velato, carico di trasparenze. E l’espressione del dolore non eccede mai i confini di un certo pudore. Esempio chiaro di questo posato classicismo peruginesco la monumentale crocifissione della Cappella della Porziuncola ad Assisi, altra importante tappa di questa tentacolare mostra sparsa nel territorio umbro.
La stessa compostezza che connota sia il bambino che la Madonna della Consolazione, uno degli ultimi capolavori di un Perugino che, varcata la soglia del ‘500 e , con suo stupore, si troverà surclassato, messo da parte, dai pittori della cosiddetta nuova maniera. Lui, amareggiato, non capirà il cambiamento in atto. Di fronte al coro di critiche con cui fu accolta a Firenze la pala per l’altare maggiore della chiesa della Santissima Annunziata, il Vasari racconta che il pittore umbro reagì semplicemente dicendo: "Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute, se ora vi dispiacciono o non le lodate più che ne posso io?".