giovedì 25 marzo 2004

su Dylan Thomas
un articolo di Pietro Citati su Repubblica

Repubblica 25.3.04
VITA DI UN GRANDE POETA TRA MISERIA E AMORE

Torna in libreria una scelta dell'epistolario
Amava dire: "Contengo in me una bestia, un angelo e un pazzo"
Recitava inesauribilmente ora sarcastico ora feroce faceva il buffone
Una sola cosa gli importava veramente, la sua poesia, era gravido di immagini
di PIETRO CITATI


Dylan Thomas era un ragazzo piccolo e magro. Aveva capelli ricciuti, color castano topo: grandi occhi di coniglio marroni e verdi, timidi, presuntuosi e meravigliati: il naso camuso, labbra grosse e sporgenti, dalle quali pendeva l´eterna sigaretta, un dente anteriore spezzato al pub delle Sirene, durante un gioco chiamato Cani e gatti. Assomigliava ad Harpo Marx: ma la sua scrittura, minuta, nitida, inclinata all´indietro, ricordava quella di Emily Brontë. Portava una cravatta d´artista col nodo grosso, fatta con una sciarpa femminile; e una maglietta da cricket color verde bottiglia, o sontuose camicie scarlatte. Gli altri vedevano in lui soltanto un ragazzo chiacchierone, che voleva fare il duro e si dava molte arie. Lui preferiva dire: «Contengo in me una bestia, un angelo e un pazzo».
Non sapeva fare quasi nulla. Aveva frequentato malvolentieri gli ultimi anni della Grammar School di Swansea, nel Galles, dove componeva quasi da solo la rivista della scuola. Poi lavorò per due anni come cronista in un giornale del luogo, facendo visite giornaliere agli obitori e alle case dei suicidi, e scrivendo articoli umoristici, letterari, versi buffi, racconti. Conservò sempre una specie di nostalgia per quel mestiere dickensiano, che gli consentiva un rapporto diretto con la realtà delle cose. Da solo o in compagnia, si ubriacava volentieri: troppo volentieri. Non sappiamo se lo facesse per inclinazione o per programma: l´alcool generava in lui un senso di euforia, di dilatazione ed insieme di distruzione, che doveva giudicare propizio all´irrompere del torrente oscuro della poesia.
Leggendo il bellissimo epistolario, si ha una curiosa impressione. Dylan Thomas non faceva che parlare di sé, come il più egocentrico degli adolescenti. Eppure, non sembra mai di incontrare, nemmeno nelle più sterminate lettere d´amore, un cuore, un´anima, una persona, come se lui non esistesse. La psicologia, e tutto ciò che si lega ad essa, non lo riguardava. Voleva dimostrare di essere un infimo frammento, risonante ed echeggiante, dell´universo: «La carne che mi copre è la carne da cui è coperto il sole, il sangue che scorre nei miei polmoni è lo stesso sangue che scorre su e giù per un albero...». Così, siccome il suo io non esisteva, Dylan Thomas recitava inesauribilmente, trasformando la sua vita in uno spettacoloso teatro. Si esibiva, ostentava, faceva il buffone - ora sarcastico, ora feroce, ora diabolico, ora profetico, ora angelico, ora osceno. Aveva un fortissimo senso parodistico, che esercitava su sé stesso e il mondo. Ma noi, leggendo le sue lettere, non riusciamo mai a ridere. La sua recitazione era cupa, grave, aggrovigliata: la più tragica delle sue maschere.
* * *
Dylan Thomas non si occupava di politica: non scriveva programmi o messaggi: non tentava di guidare le sorti del mondo, né proponeva agli uomini la ricetta per diventare, in poche settimane, buoni, belli, ricchi e felici. «Giudico l´inciampare di uno scoiattolo della stessa importanza, per lo meno, delle invasioni di Hitler, degli assassinii di Spagna, del romanzo d´amore tra Greta Garbo e Stokowski, dei Personaggi Reali, dei disastri minerari, di Joe Louis, dei perfidi capitalisti, dei comunisti santarellini, della democrazia, della Chiesa d´Inghilterra, del controllo delle nascite...». Visse gli anni della guerra chiuso attorno a sé stesso e alla piccola famiglia che andava crescendo; e temeva la guerra solo perché potevano compromettere la sua felicità. Una sola cosa gli importava: la sua poesia. Cos´erano le speranze di redenzione universale, o i disastri universali, o la fine del mondo, davanti alla possibilità di estrarre un verso perfetto dalla gioia e dalla disperazione?
Il suo tempo era occupato nel più inesauribile dei lavori. Mentre beveva, passeggiava, parlava, pensava, dormiva, sognava, Dylan Thomas ascoltava la voce delle parole. Dopo tanti anni, questa voce continuava ad affascinarlo: come accade a un sordo dalla nascita, che ascolta per la prima volta «le note della campane, i rumori del vento, del mare e della pioggia, il sonaglio dei furgoncini del latte, lo scalpitio degli zoccoli, il tocco dei rami sul vetro di una finestra». Le parole lo attraevano con il suono, ora acuto ora trionfante, ora tenebroso ora celestiale, che producevano nelle sue orecchie. Come ronzassero, strimpellassero, cinguettassero, galoppassero sulla pelle boscosa del mondo. Lo attiravano con i colori che proiettavano nelle sue pupille: colori più gelidi dell´azzurro, più fastosi e solenni della porpora. Lo terrorizzavano con enormi risate, degne di un dio pazzo o di un fool promosso per sbaglio a creatore dell´universo.
Tutte queste parole penetravano nel suo corpo, fruttificando in sempre nuove metafore. Egli sapeva che ciò che è essenziale, per un poeta, è il corpo. Portava le immagini nel ventre: attraversava il mondo pieno di loro, come l´otre di Ulisse pieno di venti; nutrito, fasciato, avvolto da metafore come da un caldo cappotto invernale. Erano immagini di ogni specie, che egli aveva raccolto dalla Bibbia, e da tutti i linguaggi antichi e moderni: soprattutto dalla tradizione inglese - corpose, gravi, folli immagini di Shakespeare, immagini di Donne e di Blake, di Hopkins e di Yeats, deliri romantici, spettri e stregonerie dickensiane, assurde fumisterie.
* * *
Il 12 luglio 1937, a ventitré anni, Dylan Thomas sposò Caitlin MacNamara: «Senza denaro, senza alcuna prospettiva di denaro, né la compagnia di amici e parenti, e completamente felice». Andò a stare in uno studio situato sopra il mercato del pesce, dove giungevano in volo i gabbiani per far colazione - e poi in un piccolo, umido cottage, senza bagno né gabinetto. In quegli anni, visse in miseria: una miseria più profonda e assoluta di quella di Poe e di Baudelaire. Non aveva un soldo: aveva comprato a rate - sette scellini al mese - perfino il letto matrimoniale; e, pochi mesi dopo, siccome non pagava le rate, gli avvocati cominciarono a «meditare qualcosa di crudele» contro di lui. Non aveva soldi per mangiare, pagare l´affitto, prendere l´autobus e il treno, vestire il figlio, andare al pub.
Chiedeva l´elemosina agli amici, querulo come un guitto di Dickens, dignitoso come uno di quei regali mendicanti del Medioevo, che un nemico astuto, il capriccio degli astri o la follia avevano cacciato dal trono degli avi. «Se hai un tantino da economizzare, che suoni o tintinni, o anche solo faccia fruscio, mandali», scriveva a Vernon Watkins. «Qualsiasi cosa, da un penny a una sterlina. La testa mi sta girando al pensiero di come procurarmi due pence, onestamente o no, per imbucare questa quasi-lettera. Se non riesco, dovrà partire nuda».
I soldi per la birra, o il whisky, c´erano quasi sempre. Continuò a bere; e in pochi anni, il piccolo, esile cherubino diventò un grasso poeta di settantanove chili, mentre Caitlin cercava molluschi sulla spiaggia o pescava con una rete bucata. L´alcool, almeno nella vita, non abbandonò più la sua preda. A trentadue anni, il corpo di Dylan Thomas era già in decadenza: era diventato così grasso, che non poteva camminare in fretta; e il volto era cremisi. Sentiva su di sé gli spiriti della distruzione, e nella distruzione si precipitava con una violenza sempre più furibonda. In Italia, nel 1947, conobbe qualche mese di remissione; e portò sempre con sé il ricordo delle ville rosse, bianche, turrite di Rapallo, simili a torte di Natale barocche; dei vicoli chiassosi e malfamati di Genova; e di una casa sulla collina di Scandicci, dove i Thomas vivevano di asparagi, gorgonzola e «molto vino rosso».
Ormai guadagnava bene. Ma i debiti lo perseguitavano ancora più di una volta: fatture, richieste di pagamento, assegni firmati e respinti lo assalivano come venditori ambulanti: ed egli non poteva far altro che pagarli con nuovi debiti, che richiedevano altri debiti, come se il denaro domandasse sempre nuovo denaro. Partì per gli Stati Uniti a leggere poesie, assieme a un gruppo ululante di conferenzieri europei: polemisti, esibizionisti, pubblicisti isterici, retori teologici, arredatori d´esterni, palloni gonfiati, ciarlatani, uomini a caccia di vedove miliardarie, autorità in materia di ciance, vescovi, cardinali, bestsellers, redattori in cerca di scrittori, scrittori in cerca di editori, editori in cerca di dollari, e donne dalla pelle di ippopotamo. Senza un attimo di respiro passava da un discorso a un ricevimento, da una lettura a un dibattito, da un treno a un aereo, dal forno di una camera d´albergo alla cabina del Queen Elisabeth: declamando poesie a pubblici entusiasti che, la settimana o il giorno prima, si erano altrettanto «entusiasmati per conferenze sull´espansione delle ferrovie e sulla moderna saggistica turca».
Non gli piaceva viaggiare. «Non sono un giramondo», scriveva alla moglie «... voglio sedere nella mia capanna a scrivere, voglio mangiare il tuo stufato e toccare i tuoi seni e voglio ogni notte star coricato in amore e pace vicino vicino vicino vicino a te, più vicino del midollo della tua anima». L´America gli pareva «una barbarie cancerosa». Gli piaceva soltanto San Francisco: così incredibilmente bella, tutta colline e ponti e un cielo blu abbagliante e tutte le razze del mondo e le piccole cabine della funicolare e le aragoste e i granchi e la città che danzava nel sole nove mesi all´anno. Cenò a casa di Chaplin, che ballò e fece il clown per tutta la sera: progettò un´opera con Strawinsky; e un inverno a Maiorca. Ma non ci fu né opera con Strawinsky né inverno a Maiorca. Dovette accontentarsi delle aeree buffonerie di Chaplin. Il 4 novembre 1953, a New York - aveva appena compiuto trentanove anni - cadde in coma. Morì cinque giorni dopo, senza riprendere conoscenza.

Nel 1970, Einaudi ha pubblicato la raccolta principale delle lettere di Dylan Thomas: Ritratto del poeta attraverso le lettere. Ora questo libro è esaurito. In questi giorni, Guanda pubblica le Lettere d´amore di Thomas, a cura di Massimo Bacigalupo (pagg. 156, euro 12,50)