giovedì 25 marzo 2004

la scrittura delle donne
un progetto delle Biblioteche di Roma

La Stampa 25 Marzo 2004
EMILY DICKINSON E ALTRE SETTE SCRITTRICI E FILOSOFE AL CENTRO DI UN PROGETTO CHE PARTE OGGI A ROMA
Tutte le strade portano all’infinito
di Liliana Madeo


ROMA. L’IDEA, in origine, era quella di rendere omaggio a Emily Dickinson, la poetessa del silenzio e della solitudine, la pensatrice sottile e inquietante divenuta «maestra di “concezioni” d’infinito», lei che – completamente vestita di bianco, il colore del lutto – a un certo punto della vita si era reclusa in una stanza e non aveva più messo piede fra le persone e le cose del mondo materiale. Prendendo ispirazione da una celebre immagine, la «finita infinità» con cui si chiude una delle sue poesie, le Biblioteche di Roma hanno quindi costruito un ben più ampio e ambizioso progetto, che coinvolge centri culturali stranieri, istituzioni, scuole, biblioteche, teatri, associazioni, editori, e che da oggi fino all’estate, per riprendere poi in autunno, prevede seminari, mostre fotografiche, letture e laboratori teatrali, sul tema «Concepire l’infinito».
Non si «studia» soltanto la Dickinson. Altre sette figure femminili vengono presentate. Poetesse, filosofe, narratrici, saggiste. Dai diversi percorsi espressivi e di vita. Tutte hanno attraversato la storia e la cultura del ventesimo secolo: l’austriaca Ingeborg Bachmann, le italiane Cristina Campo e Anna Maria Ortese, la spagnola María Zambrano, le inglesi Iris Murdoch e Virginia Woolf, l’americana Flannery O’Connor.
«Non si chiede a queste donne di spiegarci cos’è l’infinito, che cosa ne pensano. Ci rivolgiamo a loro per parlare di noi, esseri finiti e limitati, ma messi miracolosamente in condizione di accogliere, ospitare, dare inizio addirittura all’incommensurabile, all’illimitato, all’imprevisto e imprevedibile – spiega Annalisa Buttarelli, docente di filosofia ermeneutica alla Statale di Milano, consulente scientifica del progetto –. Loro hanno mostrato come può accadere che l’esperienza dell’infinito sia vissuta nell’esistenza finita. Cristina Campo diceva di essere “una donna di casa che quando ha tempo scrive” e non aveva dubbi sul fatto che ci sia “l’immenso nel piccolo, l’infinito nel finito”. Simone Weil, la sua maestra, era certa che “una cosa qualunque racchiude l’infinito”. Hanno fatto tutte la stessa ricerca. Ricorrendo a differenti “pratiche” - linguistiche, di scrittura, di pensiero, di vita - hanno dischiuso le porte a una dimensione dell’immensità che può prendere il nome di Dio, di amore, di tempo... Il loro linguaggio ricco di immagini, di figure, di energia creativa ci testimonia - secondo Luisa Muraro – “la nostra comune capacità di infinito”».
Hanno avuto – le otto letterate - un modo ardito, quasi inedito, di guardare il mondo. Tutte sono vissute lontano dai luoghi del potere e dell’ufficialità, protagoniste – prevalentemente - di percorsi solitari. La Dickinson che ammucchiava in un baule – proteggendoli - i fogli su cui aveva vergato i suoi versi meravigliosi. La Campo che cambiava continuamente nome e in terza persona si era così citata: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno», per finire quindi in assoluto ritiro nella casa all’Aventino. La Ortese, dilaniata da povertà e dolori, lavori precari e affannosi, divenuta infine un’icona quasi muta e irraggiungibile. La O’Connor segregata in una fattoria della Georgia, circondata dai pavoni che allevava e dai dannati della terra che abitavano le sue pagine: quando nel 1964 morì, Paolo Milano, il critico letterario dell’Espresso, parlò di lei come di una grande scrittrice di cui in Italia ci si era poco occupati: solo Angela Bianchini, ammise, ne aveva scritto. La Zambrano, la filosofa andalusa costretta dalla dittatura franchista all’esilio per quarant’anni, che dell’esilio – «il confine tra la vita e la morte che parimenti si escludono»- aveva fatto un «luogo privilegiato» perché «stare nell’immensità dell’esilio è stare nell’infinito».
Vite difficili, morti drammatiche. Come il suicidio di Virginia Woolf. Come l’«incidente» per cui – ustionata orribilmente nel suo letto – perde la vita la Bachmann. E fantasmi, angosce, presenze celestiali e ombre grevi ammantate di funebre dolcezza a visitarle. Percorsi di fede disparati. Convinta credente nei misteri del cattolicesimo la O’Connor, impietosa verso i buoni sentimenti, avara di consolazioni, protesa a cogliere il soffio della «grazia». Credenti la Campo e la Ortese. Conflittuale il rapporto con Dio della Zambrano, che critica la severità del Padre del Vecchio Testamento mentre ama il Figlio incarnato, sempre predilige nel corso della storia le figure della mediazione tra l’umano e il divino, e sempre critica il discostarsi della Chiesa dal messaggio d’amore di Cristo. Vorticosa, dal percorso ellittico, la presenza di Dio nella Dickinson e nella Woolf. «Il nome di Dio è sempre nel sottofondo. Anche quelle che non lo pronunciano, cercano di guadagnarsi questa parola aprendo attraverso la scrittura lo spazio perché il divino appaia», invita a riflettere la Buttarelli.
La notorietà per quasi tutte è venuta postuma. Quando la Bachmann e la Campo morirono, quasi nessuno a Roma se ne accorse. E i veleni che le investirono in vita non sono scomparsi con la loro uscita di scena. Esemplare è il caso di Iris Murdoch, filosofa e narratrice, irregolare e trasgressiva, nota per i suoi ventisei romanzi e per gli amori tumultuosi più che per le opere di filosofia cui si è dedicata sino alla fine. Adesso la Rizzoli ha incominciato a tradurla interamente. Giusto in questi giorni è uscito La campana. Contemporaneamente, come nei giorni scorsi ci ha informati Mario Baudino, in Germania sono stati pubblicati i diari di Elias Canetti che della Murdoch è stato l’amante dal 1953 al ’56. Egli ne scrive agli inizi degli anni Novanta. Sono entrambi prossimi alla morte (lui morirà nel ’94, lei nel ’99). La loro relazione risale a circa mezzo secolo prima. Eppure la voce del Premio Nobel è ancora gonfia di rancore e disprezzo. Come narratrice la definisce «un ragù oxfordiano», come filosofa – dice - «non sarebbe così male se solo avesse qualcosa da dire». Risentimenti tenaci, i suoi. «Aveva i piedi piatti e le gambe storte. A letto era un disastro», gli sembra indispensabile aggiungere.