domenica 23 maggio 2004

cos'è stato il Novecento?:
«distruzione dell'Io e autonomia [sic!] del linguaggio»

La Stampa Tuttolibri 22.5.04
Asor Rosa, il ‘900 di ogni avanguardia
appena trascorso, due caratteristiche su tutte: la distruzione dell’Io e la promozione del linguaggio a istituto autonomo, non «servile»
di Angelo Guglielmi


CONFESSO di rimanere stupito e ammirato di fronte alla maestria e sapienza con cui Asor Rosa sa entrare nei fatti e fenomeni letterari del '900, aggredendoli e illuminandoli sotto ogni rispetto (ideologico, sociologico, politico, estetico e di gusto) tanto da qualificarsi e rivelarsi più che come storico della letteratura (dei fenomeni letterari) come storico tout court. E questo non soltanto perché la sua riflessione oltre a considerare la letteratura degli ultimi cento anni investe anche i modi di essere del cinema, del giornalismo, della moda e insomma di ogni altra forma di comunicazione che il secolo (noto per avere moltiplicato oltre ogni dire le opportunità comunicative - e la corsa non è ancora conclusa) ha prodotto e messo in campo; ma specificamente e soprattutto perché si è prima preoccupato (un prima non certo temporale quanto logico) di esplorare e rendere evidenti le più nascoste radici filosofiche e morali che hanno reso così particolare il '900, radici che hanno modellato e reso a sé la totalità degli aspetti e delle forme in cui il secolo si è manifestato determinando (e fissando) nuovi e scandalosi modi di pensare e non rinunciando a entrare (trasformandola) nella vita stessa privata (comportamenti e sentimenti) e pubblica (rapporto con le istituzioni) dei singoli individui.
Non vi è dubbio che il '900 rappresenta una rottura nella catena dei secoli che si erano fin lì inseguiti evolvendosi naturalmente (o comunque secondo una successione logica) dall'uno all'altro: con il '900 quella catena si spezza e i legami di pensiero per così dire naturale e razionale che avevano comunque tenuto insieme (pur nella diversità delle singole manifestazioni e presenze) i secoli precedenti si logorano e cedono. E il '900 rimane solo (e disperato come tutti gli abbandonati).
All'origine della drammatica rottura (e qui rinuncio a dare una pur pallida idea della complessa lettura che Asor fornisce in proposito, tanta è la ricchezza dei riferimenti e l'eccellenza dell'esposizione) vi è (semplifico atrocemente) il pensiero negativo di Nietzsche, la rivoluzione temporale di Bergson, la fine della storia di Hegel, il materialismo storico di Marx, la scoperta dell'inconscio di Freud (nonché alcuni capolavori assoluti dell'arte della parola come la Ricerca di Proust, l'Ulisse, Il processo, L'uomo senza qualità che non si sa se è più giusto considerare il risultato di quella straordinaria stagione di pensiero rivoluzionato e rivoluzionario o fattori essenziali che hanno contribuito a determinarlo). Comunque da allora il mondo non è più quello. L'uomo novecentesco è protagonista di una vita certo più fervida (in realtà più inquieta) di cui tuttavia non riconosce più la giustificazione e le finalità che la legittimano: non è più l'attesa del futuro (che si presenta oscuro e minaccioso), non è più la ricerca della verità (che non si sa cosa sia), non è più la scoperta di nuove terre (che aggiungerebbero nuove afflizioni all'afflizione del mondo) e, scendendo a motivazioni più personali, non è più l'impegno della fede e per il bene, il richiamo della solidarietà, l'amore di patria. Trionfa tra gli individui un profondo e lacerante sentimento di estraneità che si trasferisce dalla percezione delle cose al riconoscimento di sé. L'uomo perde il contatto con la realtà in cui vive che ormai non gli appare che come pura menzogna, inducendolo (e costringendolo) a una crisi di rigetto. E qui siamo già (è appena iniziato il secolo) in piena avanguardia letteraria (e più in generale artistica). E ad essa Asor Rosa dedica il suo capitolo migliore: più ricco, più penetrante, più decisivo per lo sviluppo successivo delle arti. Non vi è dubbio infatti che dell'avanguardia storica, esaminata e penetrata nella varietà e specificità delle sue manifestazioni (dal futurismo italiano, al surrealismo, al futurismo russo, al movimento dada), Asor sa cogliere, con intuizione preveggente, al di là del suo disfattismo antitradizionalista e l'azzardo un po' folcloristico dei suoi manifesti e proclami, i due caratteri (se pure in nuce) che meglio la definiscono (e che diventeranno sfrondati dalla rabbiosità di origine il canone indiscutibile cui si adeguerà tutta la migliore letteratura del secolo) e cioè: 1) la distruzione dell'io che, ci ricorda Asor, già Rimbaud aveva anticipato con il suo famoso «Perché IO è un altro. Se l'ottone si sveglia tromba non è affatto colpa sua»; 2) la promozione del linguaggio a istituto autonomo non più a servizio di esigenze esterne (e estraneo) e dunque l'affermazione che «il linguaggio non ha rispetto che di se stesso e non ha altre regole che quelle che custodisce e nasconde al suo stesso interno». Su queste due spinte si sviluppa, ripeto, tutta la più seria letteratura del secolo. Una letteratura intollerante di ogni limite, che sfonda continuamente i confini in cui tende come per natura a rinchiudersi, che si rifiuta di legittimarsi a spese del sublime e preferisce dilagare (anche pericolosamente) verso zone inedite di sensibilità, di conoscenza, di fantasia. Dunque una letteratura sì esposta a perdersi ma fortemente stimolante, esaltante, energica. E se non sempre una grande letteratura certo in grado di rappresentare un grande progetto di rinascita e di rinnovamento che fa il pari con quello che portò al (contemporaneo) rivoluzionamento del mondo delle scienze. Di questo grande progetto Asor Rosa sa tracciare gli ampi confini e raccontarne le articolazioni interne con somma dottrina e una straordinaria capacità di gestione delle idee e di resa espressiva tanto da riuscire a fornirne una rappresentazione autorevole e convincente. Ma poi che succede? Quando passa a considerare le figure (gli scrittori) che (in Italia) danno corpo a quel progetto la sua mano si fa più incerta. Negli ultimi due capitoli del volume, intitolati appunto «Figure» e «Quel che viene dopo», certo troviamo i nomi (gli ampi ritratti) di Palazzeschi e di Calvino, di Vittorini, Volponi e Pagliarani ma non vi è traccia (anzi programmata omissione) di figure che con uguale e forse più autorità di loro hanno rappresentato la modernità come Gadda (appena citato), Savinio, Fenoglio, Landolfi o Campanile (senza contare che a Pirandello e Svevo sono dedicate qui e lì solo poche righe). E passando alla generazione successiva e presente di ampio e reiterato spazio godono figure come Daniele Del Giudice e Marco Lodoli, lodevoli scrittori di ispirazione essenzialmente bellettrista; ma dove sono i più inquieti e insofferenti, così poco ligi a scrivere pulito, Arbasino, Malerba, Meneghello, Sanguineti, Celati e Tondelli e ancora Cordelli e Scarpa? E poi soltanto un sospetto di malizia può renderci comprensibile il fatto che nelle «Considerazioni sulla poesia contemporanea» non siano nemmeno (per errore) citati I novissimi. Perché questa contraddizione in Asor Rosa tra idee e (loro) applicazione? Ho tre ipotesi: perché è uno storico interessato ai problemi generali e d'impianto più che alla loro verifica nei fatti; è tradito dalla sua pretesa (giusta purché non intesa in termini bassamente contenutistici) che non vi è opera d'arte che non sia anche portatrice di comunicazione sociale; la sua tensione è sistematoria(e dunque istituzionale) più che versata a scrutare il futuro dove è più facile che germogli un seme caduto dalle pagine avventate di Tondelli che non un fiore profumato di Lodoli.