domenica 23 maggio 2004

le "insalate" di Repubblica:
l'identità umana è la capacità di amare... o la guerra?

Repubblica 23.5.04
AMORE
Perché quando batte il cuore ci sentiamo veramente più umani.
Ma c'è una risposta diversa al modo di diventare umani e l'ha fornita Kojève

Un romanzo, "L'imperatore del Portogallo", è un esempio di cosa significa amare
Essere pronti a rischiare la vita per qualche cosa
I diversi modi in cui si accerta l'identità umana
di TZVETAN TODOROV (*)


Uno dei più bei romanzi del ventesimo secolo, L´empereur du Portugal di Selma Lagerlöf, inizia con l´episodio nel quale si descrive la nascita di una bambina così come viene percepita dall´anima di suo padre Jan. Costui è un povero agricoltore, che non possiede nulla, non ha combinato nulla di rilevante. Si è sposato avanti con gli anni ed ecco che la gravidanza della moglie giunge ora al termine. Jan ha trascorso l´intera giornata attendendo fuori dalla porta, ha freddo, è stanco, pensa a tutte le piccole seccature che la presenza della neonata comporterà per la sua casa. Tuttavia, alla fine entra nella stanza dove la moglie ha partorito e gli mettono tra le braccia un fagotto, dal quale spuntano un visino un po´ sgualcito e delle esili manine. All´improvviso sente il cuore battergli così forte in petto da essere quasi impaurito, e subito chiede aiuto alle altre donne lì presenti. Queste afferrano in un batter d´occhio la situazione, e scoppiano a ridere. «Non avete mai amato abbastanza qualcuno in precedenza, da provare batticuore soltanto adesso?», gli chiede la levatrice. Jan deve ammettere di no, ma comprende che cosa ha appena vissuto. E Selma Lagerlöf commenta: «Colui che non sente il proprio cuore battere, né nella tristezza né nella gioia, non può considerarsi un vero essere umano» (pag. 13).
L´imperatore del Portogallo è la storia di un amore folle, quello di un padre per sua figlia. Ci si accorge immediatamente che la posta in gioco non è insignificante - né per il protagonista, né per l´autore: si tratta, né più né meno, di identificare che cosa renda gli uomini davvero umani. L´interrogativo sull´identità umana può essere formulato nei contesti più disparati, e ricevere di conseguenza risposte quanto mai diverse. La risposta di Lagerlöf si colloca su un piano che potremmo definire antropomorfo, che si estrinseca in una sola parola: l´amore. Ciò che rende questo essere specificatamente umano è la sua capacità di amare.
È facile dire di una simile affermazione che è bella o che è nobile, ma ci si potrebbe spingere ad affermare che è vera? Prima di pronunciarmi a questo proposito, vorrei ricordare un altro tentativo di spiegare la specificità umana, che si situa sul medesimo piano antropologico. Negli anni Trenta del nostro ventesimo secolo, un giovane filosofo russo emigrato a Parigi, Alexandre Kojève, spiega a qualche attento ascoltatore il senso della celebre «dialettica del padrone e del servitore» nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra, uno degli ascoltatori presenti nel pubblico, Raymond Queneau, pubblicherà quelle conferenze con il titolo Introduzione alla lettura di Hegel, un´opera che eserciterà una profonda influenza su numerosi autori contemporanei. La risposta di Hegel alla specificità umana (così come fu interpretata da Kojève) è molto diversa da quella di Lagerlöf. In che cosa consiste la differenza tra l´animale e l´uomo? Il primo agisce sempre e soltanto in ragione del proprio istinto di conservazione, e a questo fine si appropria di tutto ciò che gli è necessario (per esempio il cibo), eliminando gli ostacoli (i rivali). Il secondo fa altrettanto, ma non si accontenta di questo, ricerca qualcosa di più della sua semplice soddisfazione fisiologica: aspira a far sì che il suo valore sia apprezzato, e questo non può venirgli se non da altri. Dunque l´umanità ha inizio là dove «il desiderio biologico della conservazione della vita» si asservisce «all´umano desiderio di approvazione» (pag. 170).
Ne consegue che essere umani significa essere pronti a rischiare la propria vita per qualcosa che va al di là di essa. Essere umani significa smettere di considerare la propria vita un valore assoluto. Questa situazione estrema agli occhi di Kojève rivela la verità insita nella ricerca di approvazione: poiché tutti desiderano ottenerla e poiché per ottenere ciò che si auspica di ottenere dagli altri è necessario prima di tutto conquistarli, la vita umana non è altro che una spietata lotta finalizzata ad averla vinta, che sfocia con la comparsa di un padrone - il vincitore - e di un servo - il vinto. La storia dell´umanità è la storia della loro lotta e delle sue ripercussioni (della lotta di classe, dirà Marx). Kojève può dunque concludere: «L´esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è pertanto possibile se non laddove vi sono - o per lo meno vi sono state - delle guerre sanguinarie, delle guerre per il prestigio». Ciò che è specificatamente umano non è più l´amore, ma la guerra.
La risposta di Kojève è sicuramente meno attraente di quella di Lagerlöf, ma è forse meno vera? Molti contemporanei paiono averla prescelta, temendo senza dubbio che li si possa accusare, in caso contrario, di sdolcinatezza (la verità deve essere sempre amara, questo è uno dei sorprendenti postulati della filosofia occidentale moderna). Rivolgiamoci allora, per cercare di vederci più chiaro, non tanto alla problematica comparsa della specie umana all´alba della storia, quanto a quella infinitamente più facile da osservare dell´individuo umano (che ben descrive il primo capitolo de L´empereur du Portugal). Alla sua nascita il piccolo d´uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito - ma i piccoli delle scimmie fanno altrettanto. Le differenze tuttavia vi sono, e una tra esse acquisisce un significato del tutto particolare. A un´età che possiamo collocare approssimativamente intorno alla settima o l´ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale: non si accontenta più di guardare la madre (questo lo fa dal momento stesso della sua nascita), ma cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla: questo è l´avvenimento grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.
Vediamo allora che la tesi di Kojève è accettabile soltanto in parte: in una prospettiva antropologica è corretto affermare che l´esistenza specificatamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi che riceviamo dall´esterno, da un altro essere umano. È la stessa cosa che aveva già affermato Rousseau, probabile ispiratore di Hegel a questo proposito: all´alba dell´umanità «ciascuno iniziò a guardare gli altri e a volerne essere guardato» (Inégalité, pag. 169). Ma qualsiasi riconoscimento - e qui occorre voltare le spalle a Kojève - non implica necessariamente una lotta mortale. L´esistenza dell´individuo, in quanto specificatamente umana, non inizia su un campo di battaglia, bensì con il neonato che attira su di sé lo sguardo della madre - una situazione, ammettiamolo, che pochi uomini hanno avuto l´occasione di osservare fino a un passato recente. Grazie a quello sguardo inizia a esistere.
Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore? Non sappiamo ciò che la sua assenza determinerebbe a livello di specie, ma sappiamo tutti che alcuni individui arrivano, ahimè, ad attraversare l´intera vita senza mai conoscere l´amore. «Signor Hamil, si può vivere senza amore?», domanda il piccolo Momo nel capolavoro di Romain Gary La vie devant soi. «Sì, rispose abbassando la testa, come se provasse vergogna. E si mise a piangere» (pag. 12). Coloro che vivono senza amore sono esseri sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani. L´amore non è invero necessario né alla conservazione della vita né a quella dell´esistenza, che nasce dal riconoscimento e non dall´amore.
Selma Lagerlöf sarebbe forse in disaccordo con questa conclusione? Non credo, infatti l´autrice non intendeva suggerire che prima della nascita della sua bambina Jan non fosse, sinceramente parlando, un essere umano. Lei ha inteso dire che grazie all´amore che Jan prova per la figlia egli ha realizzato la propria potenziale identità, ciò che vi è di più elevato nella condizione umana. Si deve dunque intendere che un «vero essere umano» non è una constatazione di fatto, bensì un giudizio di valore. La migliore vita umana (non la vita umana in sé e per sé, dunque) è quella che vive nell´amore, pare dirci Lagerlöf. E così dicendo anche lei condividerebbe una delle idee costitutive alla base dell´amor cortese medievale - «nessun uomo ha virtù senza amore» scriveva Bernard de Ventadour - che avrebbe lasciato delle tracce profonde nel concetto europeo di amore.

Traduzione di Anna Bissanti

(*) Tzvetan Todorov è nato a Sofia nel 1939. Dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all'Ecole pratique des hautes études e alla Yale University e diventa direttore del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi (CNRS). Attualmente è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi