domenica 16 maggio 2004

Gregory Bateson

La Stampa 15.5.04
A CENTO ANNI DALLA NASCITA, UNA LEZIONE DI RIGORE E IMMAGINAZIONE, ATTUALE E PREZIOSA

BIOLOGO, ANTROPOLOGO MARITO DELLA MEAD, ECOLOGO, HA RIPENSATO LA CONDIZIONE UMANA NELL’ERA PLANETARIA, IL NOSTRO ESSER PARTI DI PIÙ AMPI SISTEMI NATURALI E SOCIALI, HA INSEGNATO A VEDERE «LA STRUTTURA CHE CONNETTE», A CONOSCERE QUEL CHE GIÀ SIAMO, A COLTIVARE «LE DANZE INTERATTIVE» DELLA VITA
di Sergio Manghi

Non cesseremo di esplorare
E il fine di ogni nostra esplorazione
Sarà là dove siamo partiti
E sapremo il luogo per la prima volta.
T.S. Eliot

NELL’AUTUNNO del 1979, lo stesso anno in cui uscì Mente e natura, Gregory Bateson fu invitato a tenere una conferenza all'Institute of Contemporary Arts di Londra. Era nato 75 anni prima a Grantchester, nei pressi di Cambridge, UK. Dagli Anni 30 viveva negli Stati Uniti, dov'era approdato nel momento più intenso delle sue esplorazioni antropologiche, dopo l'incontro intellettuale e sentimentale con Margaret Mead. Non era la prima volta che rimetteva piede sulla sua terra natale, ma questa era un'occasione del tutto particolare. Gli avevano chiesto di pronunciare quella che gli sarebbe piaciuto definire la sua last lecture. Bateson decise di rispondere a questa richiesta con un excursus autobiografico e insieme (ovviamente, per lui) metabiografico. L'incipit del testo preparatorio, pubblicato solo vari anni dopo, ripete quasi alla lettera alcuni versi dei Quattro quartetti di Eliot: «Torno al luogo da cui sono partito e conosco il luogo per la prima volta». L'anno precedente aveva dovuto interrompere il lavoro su Mente e natura a causa di un grave cancro al polmone. Aveva potuto portarlo a termine solo grazie all'aiuto della figlia, Mary Catherine. Sarebbe morto nell'estate del 1980. Nella sua last lecture, Bateson ripercorreva l'avventura straordinaria della propria vita in chiave circolare: partito dalle scienze biologiche, vi ritornava; partito dalla Gran Bretagna, vi ritornava. Ma le scienze biologiche e la Gran Bretagna a cui ritornava apparivano diverse ai suoi occhi - conosceva il luogo per la prima volta. In mezzo, tra la partenza e il ritorno, i viaggi e gli spaesamenti antropologici, l'impresa esaltante della cibernetica, gli studi sulla natura relazionale della schizofrenia e più in generale della comunicazione animale e umana, le riflessioni epistemologico-ecologiche culminate in quella "svolta" dei tardi Anni Sessanta in cui maturò il progetto del celebre Verso un’ecologia della mente (1972). La biologia dalla quale - per raffinata e devota cultura familiare - era partito (il padre, William, era stato tra i precursori della genetica), appariva ora ai suoi occhi una porzione di una più ampia biologia: l'ecologia della mente, appunto, dove la ragione non era più separata dal cuore, dove l'io non era più separato dagli altri e dal contesto, dove l'universo antropologico non era più separato dal più ampio universo creaturale in evoluzione incessante, imprevedibile, creativa.
E la Gran Bretagna che aveva lasciato - così racconta - per sottrarsi al frustrante disinteresse che essa nutriva riguardo ai presupposti del suo stesso sistema sociale e riguardo all'estetica dei suoi rituali costitutivi, era ora una porzione di un mondo sociale molto più grande. Un mondo globalizzato, diremmo oggi. Un mondo, soprattutto, chiamato con urgenza a saper guardare a se stesso con occhi nuovi - a conoscere il luogo per la prima volta. Il linguaggio "ecologico" creato da Bateson, in particolare a partire dagli Anni Sessanta, va annoverato fra i tentativi più alti compiuti nel XX secolo per ripensare la condizione umana nell'era planetaria. Ovvero, per interrogare in profondità il nostro esser parte di più ampi sistemi, interpersonali, sociali e naturali, in un tempo di impetuosa unificazione dell'umanità e di crescente fiducia mitologica nelle virtù salvifiche della Tecnica: fede nel primato della finalità cosciente, per dirla con la felice formula contenuta nelle due cruciali conferenze del 1968. Mente e natura si proponeva di dare all'ecologia della mente una forma più esplicita, coerente e articolata di quella elaborata in Verso un'ecologia della mente. In sede teorica, la "mossa-chiave" di Bateson consiste nel porre la mente - una sua precisa quanto inusuale idea "sistemica" di "mente" - nel cuore stesso della storia naturale, nella grammatica autogenerativa dei processi viventi e delle loro incessanti, stupefacenti metamorfosi: «Se volete comprendere il processo mentale, guardate l'evoluzione biologica, e viceversa, se volete comprendere l'evoluzione biologia, guardate il processo mentale», ammonisce nel memorandum per i Regents della University of California, dei quali faceva parte, posto in appendice a Mente e natura. Con questo spiazzante ossimoro, Bateson immette nello stesso campo del sapere fenomeni che siamo abituati a pensare come eterogenei e distanti (l'anatomia dell'ameba, i rituali del sacro, la comunicazione tra le focene, l'apprendimento a "disabituarsi", la corsa agli armamenti, la crisi ecologica...). Le sue "domande impertinenti" (Rieber 1989) ci inducono a osservare con occhi nuovi, capaci di stupirsi di se stessi, la nostra stessa idea di "mente". Ci invitano, in altri termini, a vedere in wider perspective - in una prospettiva più vasta, come amava ripetere - quelle nostre inerziali abitudini di pensiero che ci spingono a descrivere la mente come un apparato logico-cognitivo per l'elaborazione di informazioni (input-elaborazione-output), o all'opposto, vitalisticamente, come un ineffabile quid soprannaturale - secondo il codice binario, illuministico-romantico, che disciplina ancor oggi, del resto, tanta parte del nostro moderno immaginario, anche nella più fluida variante postmoderna. Il libro, sappiamo, non ebbe l'accoglienza sperata, e Bateson ne fu amareggiato. Nel mondo scientifico, del quale non cessava di sentirsi coerentemente parte (in quanto "manovale impegnato nelle scienze occidentali"), incontrò scarso interesse, o addirittura diffidenza. E l'entusiasmo suscitato, all'opposto, in numerosi esponenti della controcultura "californiana", gli appariva dettato da disinvolte trasfigurazioni "soprannaturalistiche" delle sue parole.
E tuttavia, è proprio nel cuore di questa "doppia incomprensione", e cioè nel cuore della sua irriducibile, creativa resistenza bifronte verso il rigore privo di immaginazione e verso l'immaginazione priva di rigore, che risiede la fecondità della lezione batesoniana. A maggior ragione dopo che gli sviluppi, negli ultimi decenni, delle riflessioni sulla biologia della conoscenza, sui sistemi complessi, sull'evoluzionismo post-darwiniano, sul carattere relazionale della natura umana, sulle escalation comportamentali che innescano violenze e follìe, sulle svolte epistemologiche dell'antropologia, sul posto centrale della metafora nella nostra comunicazione, e di molte altre riflessioni ancora, hanno ampiamente confortato le idiosincratiche esplorazioni, suggestioni e costruzioni batesoniane. Il "metodo della descrizione doppia", come lo chiama Bateson (proprio in Mente e natura, parte V), continua a lanciare alle nostre obsolete abitudini di pensiero una sfida radicale. La sfida a riconoscere il "profondo panico epistemologico" (Dove gli angeli esitano) che cova sotto il nostro bisogno di certezze, di quelle scientiste come di quelle antiscientiste. La poesia Il manoscritto, che Bateson scrisse dopo aver consegnato all'editore il manoscritto, appunto, di Mente e natura, si conclude così:
«Queste son cose da predicatori
da ipnotisti, terapeuti e missionari.
Essi verranno dopo di me
e useranno quel po' che ho detto
per tendere altre trappole
a quanti non sanno sopportare
il solitario
scheletro
della verità».
Quella di Bateson non è solo una lezione di teoria: è anche, inseparabilmente, una lezione di stile. Di estetica del conoscere. Per questo, anche nel proporci un'opera relativamente sistematica come Mente e natura, Bateson non ci invita a far nostre, letteralmente, le sue formule teoriche, per diventare finalmente "batesoniani". Ci invita a coltivare, nell'ambito dei contesti piccoli e grandi in cui viviamo, la nostra personale sensibilità alle concrete "danze interattive", meravigliose e terribili, cui prendiamo parte per vie comunicative in ogni caso largamente inconsapevoli.
Lezione ancor più preziosa oggi, XXI secolo, dopo che la rapida mondializzazione dell'economia liberista e i travolgenti progressi nelle tecnologie della vita, degli armamenti e della comunicazione hanno così potentemente accelerato, nel bene come nel male, la necessità di una coscienza dell'esser parte di contesti relazionali in ogni caso grandi e misteriosi: in quanto persone, in quanto gruppi, in quanto popolazioni, in quanto generi, in quanto specie. È la necessità di prenderci cura della nostra sensibilità alla struttura cui connette (responsiveness to the pattern which connects), come recita la bella espressione di Mente e natura. Necessità, suggerisce Bateson nel "metalogo" con Mary Catherine che conclude il volume, inseparabilmente razionale, estetica e religiosa. Necessità vitale, che l'avrebbe condotto a dedicare gli ultimi mesi della sua vita a quell'epistemologia del sacro, anticipata nel "metalogo", che vedrà la luce soltanto dopo la sua morte, in forma di frammenti ricostruiti e integrati dalla figlia (Dove gli angeli esitano, 1987). In quell'autunno londinese che sarebbe stato l'ultimo della sua vita, Bateson faceva balenare con eleganza, attraverso le parole di Eliot, quel che di più prezioso, e insieme di più difficile, possiamo apprendere dall'incontro con la sua opera: non a conoscere di più - più di prima, più degli altri - le presunte leggi nascoste delle "danze" che veniamo danzando, piccole e grandi, effimere e durevoli, sociali e naturali. Ma a conoscere noi stessi e il mondo in cui viviamo in un altro modo. Un modo autoriflessivo e partecipe, che possa rivelarci - ponendola di continuo in wider perspective - la straordinaria vicenda di quel che già sappiamo, di quel che già siamo, nel bene come nel male, e insieme la sua inesauribile, sorprendente novità.