domenica 16 maggio 2004

Joan Mirò

La Stampa Tuttolibri 15.5.04
JOAN MIRO’ Il calligrafo del cielo stellato
di Marco Vallora


GRANDE, grandissimo Mirò. Proprio perché sempre libero, arioso, nocchiere superbo ed insieme umìle dei propri grandiosi «vuoti» dipinti, che sino alla sua scomparsa, quasi centenaria, veleggiarono spumeggianti sulle ciglia cedevoli e stupefatte delle pareti del mondo. Senza mai un intoppo fastidioso, un irrigidimento ideologico, una sclerosi del gusto, parola che i soloni della surrealtà spesso ostentano ancora di disprezzare. È questo, soprattutto, che stupisce in lui, se lo si compara ad altri maestri del moderno, che invece hanno subito inciampi e cadute vertiginose nella torpida vecchiaia, irrigimentata o mercantile (basterebbe pensare a Max Ernst l'onirizzato, o talvolta a Derain e soprattutto a Chagall). Mirò no. Da buon metafisico e meditatore orientale, da calligrafo del cielo dipinto-stellato, non smette mai di rigenerarsi e di snellire i propri commerci con la realtà ed i dialoghi generosi con il proprio inconscio. Un subconscio altamente bambino, che non vuole, bretonianamente o freudianamente, sapere, insegnare, indottrinare. Lasciatemi «sporcare» quella parete, sembra ripetere ogni volta, palazzeschianamente, questo palombaro di nuvole dell'immaginario e di un formicolante pre-conscio, narrativo ed insieme poetico. Perché, come capita in questa bella rassegna parigina para-cronologica e musicale, senza troppa zavorra documental-filologica, per lasciar meglio staccare da terra questi aerostati in forma di tela, a materializzarsi sono come dei frammenti vaganti d'una lunga trama di stoffa interiore, che ogni tanto l'immaginario felice di Mirò «stacca» e confeziona. E non importa che le tele debbano essere immensi tappezzamenti celesti, slacciati da ogni gomèna della realtà, oppure piccoli frammenti di juta, scritta dalla sua febbrile grafia onirica, senza indossare mai la museruola soffocante del Surrealismo. No, non ci sono rapporti di valore e tabelle di tonalità, in questo suo viaggiare libero e notturno, quietamente ventoso e sempre cordiale (quale lezione per i nostri astrattisti respiranti e anti-geometrici, i Licini e i Soldati, i Melotti e i Novelli!). Così come non ci sono gerarchie di arti alte o minori, nobili od applicate. E se non sapessimo come vanno le cose delle arti, e le leggi inesorabili del far mostre, potremmo anche scegliere la via della benevolenza e pensare che Como abbia pensato di partire proprio là dove finiva Parigi, mostrando intanto e soprattutto l'ultimo periodo del maestro di Barcellona, quello più lirico e «scritto» (su cui curiosamente il Pompidou un po' troppo sorvola). Ma poi in particolare, Como, la città della seta, abbonda festosa in ceramiche, arazzi, affiches e tessuti (ovviamente molto più facili da ottenere) però non è il caso questa volta di storcere il naso, perché Mirò è grande («fare questa serie come d'un sol fiato») ogni volta che il suo polso-mentale si piega a sfiorare una superficie, una qualsivoglia «stoffa», sforbiciata dall'inesauribile pezza della sua fantasia. Ecco: chissà perché già dire «sforbiciato» suona termine troppo rude e violento, per quella sua lievità gentile e parigina. Talvolta ci si può domandare, sbagliando, come un artista così aereo e sopra-celeste possa fuoriuscire dalla tradizione scura e penitenziale dei Cervantes, degli El Greco, di Goya, insomma essere spagnolo. Ma è un errore, ovviamente, intanto perché Mirò sta piuttosto dalla parte cristallina dei Pedro Salinas, degli Azorin, dei Planetts e di Lorca e d'un musicista disincarnato come Mompou, poi non dimentichiamo quanta ferocia gongoresca ci sia pure in lui, anti-franchista ed anarcheggiante. E non solo nei suoi primi, feroci, ritratti di famiglia, «crudele opera di dissezione», quasi cubisteggiante, per dirla con lo studioso Roland Penrose (amico di Picasso, da cui Mirò si sentiva talvolta distaccato e polemico). Anche in certe sue partiture astratte, burrascose e martellate (ma lui non ama la parola astratto e prende le distanze dal «concreto», diciamo così «pelato», di Arp e Brancusi) per esempio la Ballerina che ascolta l'organo in una cattedrale gotica, o Gente nella notte guidata dalle tracce fosforescenti delle lumache, l'Interno Olandese I (che è un ovvio sfottò al gelido neo-plasticismo di Mondrian, ritornando verso le stanze musicali di Steen e von Ostade, ma popolandole di bruchi alla Bosch) oppure la Scala della fuga, così poco alla Klee, ci si rende conto che l'ispanità di Mirò risale molto più a monte degli scurori di Zurbaran e Velazquez. Verso le tracce prestoriche delle sculture iberiche od i resti dell'arte romanica catalana, tanto amata. E così si spiegano le anatomie poli-occhiute, i «capitipèdes», ovvero le sue teste pluri-piedate, le almanaccate «mitologie» della sua calligrafia celeste. Unico precetto «quello di Jarry, che si sia in queste tele un grande humour e grande poesia».