Repubblica 9.5.04
IL CASO
Rete 180, una radio di matti "Qui ci sentiamo più normali"
Terapia al microfono per vincere il disturbo mentale
Ma ora i redattori ambiscono ad avere una frequenza per trasmettere le proprie interviste, le ricette, i servizi o i propri strani pensieri
L'emittente, nata in una stanza del centro psico-sociale "Poma" di Mantova, ha aiutato i pazienti a entrare in contatto con la realtà
di FABRIZIO RAVELLI
«LA TV fa male perché la guardi, la radio fa bene perché la fai». Parola di Luciano, che oggi dirige i dibattiti, fa interviste, vorrebbe avere una diretta notturna tutta per sé. Passa ancora molte ore davanti alla tv, convinto che l´elettrodomestico gli parli, proprio a lui. «Delirio di influenzamento», la diagnosi. Ma la sua vita è un po´ migliore, da quando è passato dall´altra parte, da quando usa un microfono e lavora a Rete 180, «la voce di chi sente le voci», la radio dei pazienti qui al Centro psicosociale dell´azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova. L´hanno chiamata «radio-terapia», con quell´umorismo lucido e stralunato che è uno dei marchi di fabbrica. La redazione è nella stanza più grande del centro di salute mentale: l´antenna è un attaccapanni.
E´ tutto cominciato quella volta che Luciano si trovò a parlare in tv. «Quella sera - racconta Giovanni Rossi, primario ed "editore" di Rete 180 - lui che era sempre convinto di essere perseguitato da gente ostile riuscì a parlare di sé, della sua patologia, in modo tranquillo e adeguato». Ci hanno pensato su, Rossi e il suo collega Baraldi, e hanno provato a usare la radio («La radio perché è semplice, abbiamo cominciato con un microfono e un impianto stereo») come trattamento terapeutico. «Ai pazienti serviva uno spazio di comunicazione. E la radio era perfetta: crea distanza, mediazione, protezione, filtro. Ma dà la possibilità di entrare in contatto con la realtà esterna, con le persone. Abbiamo scoperto che, con un microfono in mano, parlavano anche quelli che non parlavano mai».
Siccome non hanno ancora una frequenza, tengono bassissimo il livello del trasmettitore: il segnale si capta solo dentro l´ospedale, e pochi metri fuori. Sperano che qualcuno gli affitti una frequenza: «Per comprarne una girano prezzi pazzeschi, centinaia di migliaia di euro». Qualche spazio l´hanno avuto da Radio Base, qualche intervista l´hanno data a Radio Popolare, anche Caterpillar su Radio 2 ha trasmesso cose loro. Ma insomma, Rete 180 è quasi una vera radio. L´apparecchiatura è stata messa insieme da Stefano, infermiere. C´è una redazione, che si riunisce ogni venerdì per discutere i programmi, per registrare dibattiti interni. Intorno a un tavolo, passandosi il microfono. Marco detto "Notizia" ogni mattina fa una sorta di rassegna stampa: lui si sente povero, e ogni notizia è letta in quella chiave. L´Alitalia va male? «Perché l´Alitalia è povera». Marco tiene sempre 20 chili di pasta in casa, non si sa mai.
Luciano, pioniere e fondatore, dirige e tiene rapporti con gli ospiti: ha un talento naturale per la radio. Luisa, l´esperta di cucina, diffonde ricette. Alcune tradizionali, come quella dei tortelli di zucca: «Ma con le dosi per 150 persone, l´ho data quando c´era il controfestival, visto che c´erano 150 cantanti. Le decido a seconda del tema del giorno». Altre fantastiche: «Come il tiramisù per l´amore di coppia: 1 cucchiaino di lacrime, 1 palpito di cuore, 1 etto di nostalgia, 1 pizzico di gelosia, 1/2 dozzina di ceffoni...». Una volta Luisa diede la ricetta della torta sbrisolona, ma per 50 mila persone, indicando che per l´impasto servivano le ruspe.
Il Dipartimento di salute mentale ha un reparto con 14 posti, a rotazione quando qualcuno dei pazienti passa un brutto momento. Ma quasi tutti vivono fuori, nel mondo della gente "normale". Rete 180 serve a entrare in rapporto coi "normali", ascoltandoli e intervistandoli. Ma la radio è comunque il centro della vita di chi ci lavora: «L´effetto - dice Rossi - si trasmette a tutta l´attività del dipartimento, influenza tutto. Perché nei loro dibattiti affrontano questioni fondamentali. Per esempio: serve a qualcosa prendere farmaci?». Gli psichiatri a volte sobbalzano, ascoltando certe trasmissioni.
Come quando, dieci giorni fa, hanno fatto una trasmissione sul tema: «Siamo tutti un po´ ostaggi?». Dall´Iraq a Mantova, senza mediazioni. L´Iraq era «La guerra di Piero», De André in sottofondo. Il resto erano le vite in diretta: «Quando siamo stati ricoverati, ci siamo sentiti ostaggi?». Libere associazioni mentali: «Paura, disagio, nemico, libertà, viaggio, terrore, salame, cattura, rabbia, dolore, infermità, incertezza, tradimento, prigione, angoscia, prigioniero, zio». Racconto: «Io sono stata veramente prigioniera un anno e nove mesi a Pisa: mi facevano l´elettroshock, mi legavano, mi imbottivano di farmaci. Non è servito a niente, ha solo aggravato la mia situazione».
Questa è Cinzia. Durante il «controfestival», quando Rete 180 intervistava cantanti e personalità nell´atrio del teatro Ariston, Cinzia intervistò il cabarettista Dario Vergassola. Per scoprire che anche lui, Vergassola, era stato imbottito di farmaci a Pisa. Che aveva avuto uno zio "matto", tornato all´improvviso a casa dal manicomio quando la legge 180 aprì le porte: «Arrivò con la valigia e con la barba. Fu un trauma per lui e per noi». Cinzia, con la radio, ha acquistato un po´ di sicurezza. Ha preso un diploma di restauratrice, lavora a Palazzo Te e censisce i restauri necessari. Dice: «L´arte mi scalda dentro». Con altre due ragazze, pazienti del centro, hanno preso casa: «Era un periodo difficile, abbiamo avuto questa idea. L´agenzia immobiliare ce ne ha trovata una, e la padrona ce l´ha affittata senza problemi». Il primario dice che l´idea stessa di restauro ha a che vedere con il lavoro del dipartimento: «In fondo restauriamo persone, o ci proviamo.
Trasformiamo cose considerate inutili in cose utili: come quando qui hanno fatto dei portavasi con le vecchie cinghie di contenzione».
Divina, una delle tre ragazze dell´appartamento, è nella radio la voce della poesia: «Di solito le scrivo seduta stante, ispirandomi al tema della trasmissione». Ne ha una borsa intera, di poesie battute a macchina, e poi un grande quaderno nero ordinatissimo. Dice che anche la radio è venuta fuori così: «Una parola tira l´altra, e avevamo fatto la radio». Microfono in mano, continuano a tenersi attaccati al mondo. Girano la città, vengono accreditati agli eventi sportivi e culturali.
Discutono e intervistano su tutto: lo sciopero generale, «raccogliendo materiali su cose, persone o cose che non possono scioperare, per esempio il prete o l´ambulanza», o la ricerca del Politecnico di Milano sull´identità mantovana, subito centrata sulla definizione di «vissuto». O ancora, «i kamikaze». Luciano aveva una sua idea televisiva: «Lì in Medio Oriente per me succede che gli israeliani hanno un tipo moderno di televisione, la guardano e non succede niente, sono abituati. Gli orientali invece, quando gli vengono quelle robe lì della televisione si vanno a suicidare in Israele, piuttosto di soccombere a quella cultura televisiva».
Non c´è niente di idilliaco, in questa Rete 180. I redattori-pazienti sono tutti consapevoli della loro sofferenza mentale: «Ci sono malati psicotici gravi - dice il primario - Ma questo progetto li fa sentire protagonisti, li valorizza, e stimola l´auto-aiuto. Si è formato un gruppo solidale, dove ciascuno trova l´appoggio dell´altro. Stiamo tutti lavorando sulla nostra crescita». I pazienti frequentano tutti un corso di professionale di spettacolo, con la cooperativa Teatro Magro di Brescia. Adesso vorrebbero diventare grandi, e avere una frequenza per farsi sentire. Luciano vorrebbe la diretta notturna. Lui di notte quasi non dorme, e telefona in ospedale per parlare con qualcuno. La tv gli fa male, «ma la radio fa bene perché la fai».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»