domenica 20 giugno 2004

«depressione e ansia sono autentiche malattie sociali»

La Stampa TuttoLibri 19.6.04
Ma siamo sempre più tristi
Specie tra i giovani cresce il disagio psichico in un’epoca di incertezza, di fronte a un futuro visto come minaccia, individui solitari, con legami e affetti effimeri, liquidi: le analisi concordi di Benasayag e Schmit e di Zygmunt Bauman
di Lelio Demichelis


SIAMO tristi e ansiosi, chiusi e impauriti, ma viviamo in società esasperatamente edoniste. Se tutto è permesso, perché non farlo? Eppure, depressione e ansia sono autentiche malattie sociali. Una contraddizione? No. Miguel Benasayag e Gérard Schmit - filosofo e psicanalista il primo, psichiatra infantile il secondo - operano in Francia nel campo dei servizi di aiuto psicologico al disagio giovanile. Hanno scritto un libro splendido, da leggere e meditare, L’epoca delle passioni tristi. Preoccupati dal dilagare delle patologie psichiche tra i giovani, i due autori hanno cercato di capirne le cause. Ad essere in crisi è oggi soprattutto (prima di tutto) la società, ma è una crisi diversissima da quelle del passato, perché ribalta i suoi fondamenti culturali e simbolici. Una società attraversata oggi da quelle che Spinoza chiamava appunto «passioni tristi», riferendosi non alla tristezza del pianto ma all’impotenza e alla disgregazione. Impotenza per una realtà che non si controlla e che si subisce; disgregazione per la svalutazione di valori e legami. I legami tra persone, soprattutto, oggi debolissimi, fragili. Già Aristotele - ricordano Benasayag e Schmit - spiegava che «schiavo è colui che non ha legami. Libero è invece colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri e il luogo in cui vive. Paradossalmente - concludono - la nostra società ha un ideale di libertà che somiglia alla vita dello schiavo secondo Aristotele». Oggi davvero siamo sempre più «individui» solitari, sempre meno «persone» capaci di legami e di ascolto. E la novità: le crisi psichiche individuali «avvengono in effetti in una società essa stessa in crisi». Una società - dominata dalla tecnica, dalla logica economicistica e dal bisogno di confermare incessantemente questo «ordine» che cura con i farmaci e non con l’ascolto del paziente. Quell’ascolto che oggi le nostre società (e non solo la medicina) hanno quasi del tutto rimosso. Ogni paziente è invece sempre e soprattutto una «persona» e come tale andrebbe trattata. «Persona» implica qualcosa di molteplice e di aperto al mondo, mai etichettabile rigidamente, mai classificabile «a priori» secondo questionari astratti e modelli preconfezionati di patologie, secondo una certa psicanalisi. Ma la tecnica non ama il molteplice, deve sempre ridurlo a norma, a standard. Anche la medicina. Come la società intera. Qualcosa di radicalmente nuovo è successo: il futuro ha cambiato «segno». Un paradosso astratto? No. «Assistiamo infatti, nella civiltà occidentale al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro». Trionfa l’incertezza. Non che sia sempre negativa, l’incertezza, anzi. Ma certo siamo passati dal mito «dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo». Il mondo non più come «promessa» e come Futuro/Progresso da costruire, dunque, ma come «minaccia» incessante. Ecco allora la paura, la chiusura in se stessi ma anche l’educazione dei giovani alla competizione, al successo, al far da soli. Libero davvero è solo colui che domina, dicono il pensiero (il conformismo) contemporaneo e la nuova pedagogia sociale. Alla fine non si domina nulla, nemmeno se stessi. Perché (ci) siamo privati di quella cosa fondamentale che si chiama legami. Come uscirne? Con la clinica della situazione e dell’accompagnamento, come la definiscono Benasayag e Schmit - dell’ascolto soprattutto. «Dobbiamo sostenere i legami concreti che spingono le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle in nome degli ideali individualistici». Che sono ideali fasulli, utili solo ad un nuovo ordine sociale.
Ma come creare legami se il modello dominante è fondato su legami deboli, transitori, effimeri, da consumare rapidamente? Anche nell’amore, ma non solo: ed ecco allora questo Amore liquido di Zygmunt Bauman, uno dei maggiori sociologi di oggi, teorico proprio di quella modernità liquida che ha preso il posto della vecchia modernità pesante, vecchia fabbrica e vecchia società di massa. Legami oggi da poter sciogliere e interrompere come se si cliccasse col mouse e si uscisse dal collegamento. Non legami finché morte non ci separi, dunque, ma legami deliberatamente deboli. Con un di più. Quell’homo oeconomicus «solitario, egoistico ed egocentrico» unito all’homo consumens, altrettanto «solitario, egoista ed egocentrico» che non conosce altra cura per la propria solitudine che il consumare eterodiretto. «Sono uomini e donne privi di legami sociali, gli abitanti ideali dell’economia di mercato e il genere di persone che fanno felici gli analisti del Pil». Cosa può, contro questo meccanismo, l’economia morale, il dono, l’aiuto? Chi crede davvero di dover amare il prossimo suo come se stesso? Come ri-creare legami e solidarietà? L’analisi di Bauman è come sempre efficace. E feroce: la solidarietà umana - scrive - «è la prima vittima dei trionfi del mercato dei consumi». A conferma che è la società ad essere malata.