domenica 18 luglio 2004

l'autore di Fosca
il romanzo pacifista di uno dei più celebri autori della scapigliatura

La Gazzetta del Sud 18.7.04
«UNA NOBILE FOLLIA» DI IGINIO UGO TARCHETTI (1839 - 1869)
Quel romanzo pacifista dell'Ottocento
di Paolo Petroni


«Le disfatte di Custoza e Lissa hanno giovato al nostro Paese assai più che una grande vittoria, lo hanno liberato della piaga terribile del militarismo». Lo afferma Iginio Ugo Tarchetti, uno delle figure rappresentative della nostra scapigliatura, nella prefazione alla seconda edizione del suo romanzo «Una nobile follia» (Oscar Mondadori, pp. 198 - 6,80 euro), uscito nel 1867. Lo scrittore aggiunge: «Una voce è già sorta nel Parlamento a chiedere l'abolizione dell'esercito. Non è lontano il giorno in cui la condanna morale che pesa su questa istituzione avrà trionfato degli ultimi pregiudizi che la sostengono». Siamo in una posizione opposta a quella dei coevi bozzetti di «Vita militare» di Edmondo De Amicis, del resto nati su richiesta degli alti comandi militari che, proprio per contrastare il successo del romanzo di Tarchetti, chiesero di scrivere qualcosa al giovane tenente, futuro autore di «Cuore» e allora ancora militare. Naturalmente per arrivare a sostenere le sue tesi, Tarchetti usa lo strumento narrativo ad arte e racconta nel suo romanzo sia la battaglia del 16 agosto 1855 in Crimea, presso il ponte di Traktir sulla Cernaia, dove le truppe piemontesi sconfissero quelle russe, sia una visita al campo di combattimento di Inkermann del protagonista, Vincenzo D., dove si era svolta il novembre prima un'altra tremenda carneficina (si parla di 10 mila russi e 5 mila anglo-francesi) che aveva fatto soprannominare il luogo «Il Macello». Il curatore di questa edizione odierna, Roberto Carnero, inizia la sua introduzione facendo un paragone tra la descrizione di questa visita e poi della battaglia della Cernaia con le scene iniziali del film «Salvate il soldato Ryan» di Spielberg e i suoi primi piani cruenti e sanguinosi dello sbarco in Normandia. Tarchetti descrive «pozzanghere di sangue» divenute «croste ampie nerastre», «soldati insepolti», «cadaveri che cadevano a brani dai pruni dei dirupi cui erano rimasti sospesi», «mucchi di corpi corrotti» e così via, cui segue la non meno orribile battaglia. Una descrizione dall'interno che non salva nulla, non trova attenuanti, non scopre atti d'eroismo, non mostra momenti ideali di valore individuale, ma punta sul nonsenso generale dell'eccidio in atto, esprimendo tutta la negatività di quella «epopea di sangue». L'inizio della battaglia, dopo aver descritto il dispiegarsi degli eserciti in mezzo a una natura idillica, mette a fuoco i cannoni: «Tutte quelle bocche stanno spalancate, nere, ampie, inesorabili. Ancora non si sono vedute, ancora non si è tentato di fuggirle, che vomitano un'onda di ferro e fuoco, e atterrano, non salvando un sol uomo, i primi battaglioni». Poi vengono i «ruscelli di sangue» frutto di una lotta «non più di uomini ma di jene» con corpi «appesi per le vertebre ai rami spezzati poco prima dalla mitraglia» o «i verdi tappeti delle eriche» cosparsi «di membra e viscere lacerate», mentre dal comando piemontese arriva lo storico e orribile ordine di erigere trincee con i mucchi di cadaveri dietro cui ripararsi. E in questa situazione che Vincenzo D., contro ogni sua volontà, ammazzare per un gesto istintivo di legittima difesa un giovane nemico polacco, dopo di che, preda di quella «nobile follia» che dà il titolo al romanzo, decide di disertare, tanto che oggi potrebbe essere visto come un potenziale simbolo storico per quanti innalzano le bandiere con l'arcobaleno della pace, contro il perdurare delle guerre.