La Stampa 03 Novembre 2004
INCONTRO CON L’ARCHEOLOGO CHE QUARANT’ANNI FA RIPORTÒ ALLA LUCE LE ROVINE DI EBLA
Matthiae: scava scava ritroverete l’Altro
«Il nostro lavoro non è solo legato al passato, a ciò che si trova sotto terra. È uno straordinario allenamento alla cultura delle differenze»
di Marco Vallora
DAMASCO. QUARANT’ANNI esatti dalla scoperta di Ebla. E non si direbbe: per lo meno a saggiare la vitalità con cui Paolo Matthiae, l'illustre archeologo della Sapienza di Roma che ha legato il proprio nome al ritrovamento imprevisto di questa antichissima città siriana, nemmeno sospettata dalla dottrina archeologica classica, racconta della sua straordinaria esperienza, come se fosse un'episodio che risale a qualche settimana fa. «E c'è ancora moltissimo da fare, non si smette mai, per carità, non s'interrompe un attimo di lavorare. Le zone da riportare alla luce sono ancora molte». Nessun rimpianto, nessuna recriminazione, persino la burocrazia e le sovvenzioni, i fondi venuti dall'Italia, hanno questa volta insolitamente funzionato: «Sì, non possiamo lamentare nulla, l'importanza di Ebla è stata subito percepita. Ma anche sul sito ho lavorato sempre benissimo, accanto ad amici e colleghi siriani. Non soltanto sul piano tecnico, ma anche per lo spirito straordinario di collaborazione. Direi che questa è una situazione esemplare nei rapporti euro-asiatici, la Siria è indubbiamente un paese di eccezionale equilibrio. Perché non si può negare che questa, del Vicino Oriente, è una zona assai delicata, anche e soprattutto per l'archeologia».
In Siria è diverso. «Ho sempre pensato che la Siria sia stata terra di frontiera e ponte di cultura. Ed è innegabile che in questa terra, dove pure nei secoli sono avvenuti scontri anche feroci, sia esistita sempre una compresenza di credi e di civiltà abbastanza unica. Basta andare al museo di Damasco e leggere l'importantissima testimonianza degli affreschi staccati di Duros Europos, in cui tranquillamente convivono dignitari togati romani con altri personaggi in fogge elegantemente orientali. Per questo, in un momento così delicato, ho trovato assai intelligente, e non turistica, spettacolare, l'iniziativa di Cristina e Riccardo Muti e del Ravenna Festival, non soltanto di portare la musica italiana, qui, nel teatro romano di Bosra e di voler così celebrare i quarant'anni di Ebla. Ma anche di fondere insieme simbolicamente gli esecutori della Scala con quelli siriani, perché qui c'è una vivissima cultura musicale e artistica. La giovane moglie del presidente è molto attenta allo sviluppo culturale del paese, ed è assai presente anche agli sviluppi del cantiere di Ebla».
Che cosa abbia rappresentato per l'archeologia la riscoperta di Ebla è ormai noto, universalmente. Ma che cosa ha significato per la Siria? «Che il ritrovamento abbia davvero cambiato il corso della storia dell'archeologia del secondo dopoguerra non tocca a me dirlo, ormai lo ha riconosciuto l'intero consorzio scientifico. Ma per la storia della Siria è stato un evento davvero decisivo. Perché prima, schiacciata e negletta dalle vicine civiltà imponenti, come l'Egitto e la Mesopotamia, la Siria quasi non aveva un'identità. Poi è venuta fuori questa città, Ebla, già così evoluta e ricca intorno al 2300 a. C. Abbiamo trovato oltre 17.000 tavolette in ottimo stato, che, decrittata ormai la loro sconosciuta scrittura semitica, l'eblaita, ci hanno permesso di conoscere usi e costumi, soprattutto economici, d'una cittadina tanto nevralgica e in una zona così strategica e con legami politico-commerciali tanto importanti. Tutto ciò ha cambiato completamente l’immagine storica della Siria e pure il suo corso moderno. Le ha regalato una nuova identità».
Dunque l'archeologia non ha soltanto un peso specialistico, universitario, ma anche un peso politico. «Uno pensa allo stereotipo del vecchio professore trasognato, fissato, con gli occhi rivolti soltanto al passato e legati a un minimo, circoscritto periodo. Ma non è vero: l'archeologia non è qualcosa di antico, di polveroso, di sepolto nella terra. È un’ottima palestra per insegnarci a pensare insieme, in dialogo fecondo, all'alterità e alla nostra identità. Ritrovi le tue radici, ma riscopri anche il diverso da te: uno straordinario allenamento alla cultura delle differenze».
La distruzione dei Buddha in Afghanistan, gli assalti ai musei di Kabul e di Baghdad. Oggi la politica distrugge più che proteggere. «Io non voglio dare giudizi politici, ma certo quello che è successo in Iraq è allarmante. Uno poteva anche pensare a deturpazioni di monumenti, a ruberie e sciacallaggio nei siti indifendibili, ma che una grande democrazia come l'America non abbia saputo, non sia riuscita a proteggere un museo fondamentale e ben localizzato come quello di Baghdad è davvero inquietante». Che non abbia saputo o voluto? «Ma è questo che è spaventoso, che possa prevalere un calcolo politico su quello culturale. E così questi pezzi unici, per la cultura del mondo, potranno finire soltanto in quelle ricche case di Paesi che non hanno fatto nulla per proteggere quel patrimonio. E poi è impressionante pensare che invece si sia difeso un simbolo vuoto, un edificio astratto come quello del ministero del Petrolio: allora vuol dire davvero che l'economia ha vinto su tutto». Ma il passato mesopotamico, dice Matthiae, non è una prerogativa del popolo iracheno: «Questa è la culla di tutta la nostra civiltà, qui è nata la prima scrittura, qui la trascrizione del primo rigo musicale, qui è vissuta la più antica poetessa della storia e si sono realizzati altri primati, magari meno divertenti, un po' bizzarri, ma comunque essenziali per tutta l'umanità».
Per fortuna in Mesopotamia la guerra non ha sempre avuto effetti devastanti. È il caso dell’incendio che ha reso indistruttibili le tavolette di Ebla: una distruzione protettiva, com'è successo a Pompei. «Sì, è una delle contraddizioni dell'archeologia, di cui la scienza si può avvantaggiare, un po' cinicamente. Quanto più le grandi catastrofi sono state improvvise, non solo Pompei ma per esempio anche Santorini, tanto più il lavoro dell'archeologo è reso interessante e ricco. Chi ha tempo di fuggire lascia solo un guscio vuoto». Ebla ha ancora dei segreti? «Le oltre 17.000 tavolette, compresi i frammenti, sono state trascritte quasi tutte. Ormai conosciamo i contenuti nei minimi dettagli. Si parla molto di economia, ma anche di arte e di musica, dal punto di vista tecnico-pratico. Per esempio si sa che c'erano molti cantori e che prima dell'assalto la città aveva avuto un incremento economico straordinario. Forse questo ha determinato la sua morte».
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