mercoledì 3 novembre 2004

citato al Lunedì
Cancrini sull'Unità del 1 novembre

L'Unità 1.11.04 pag. 27

Luigi Cancrini
Il disagio mentale nella trappola dei pregiudizi

Devo lanciare un allarme. Attenti a quello che accade in termini di salute mentale. Facendo parte di una associazione sono informata su quanto avviene in termini di disagio psichico nel Lazio; è proprio sotto i nostri occhi: il progressivo depauperamento delle strutture pubbliche (Alcune ASL di Roma hanno l'organico ridotto del 50%) e delle strutture del privato sociale che si occupano di cura e di recupero, a favore delle cliniche private con l'inevitabile aumento dei pazienti psichici nelle cliniche e l'ospedalizzazione progressiva e lunga. Come? Per esempio con la firma di un verbale d'intesa con tredici case di cura private con il quale si destinano 800 posti letto per pazienti psichiatrici per i quali si prevedevano cospicui aumenti delle rette giornaliere. Questo, a mio avviso, è il modo per fare entrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta: il manicomio. La cura e il recupero non possono consistere solo nell'andare avanti e indietro con la testa bassa, la sigaretta in mano e nella tasca, spesso, un rosario.
Ho sempre pensato che la legge Basaglia, lo psichiatra che lottò contro l'istituzione manicomiale, sia una delle più coerenti con lo spirito della nostra Costituzione. Allora attenti ai vari tentativi mascherati di cambiarla; se andranno a segno apriranno la strada in modo inarrestabile anche agli ospizi per poveri, portatori di handicap, anziani.
Anna Maria De Angelis


Più leggo lettere come queste e più mi convinco che nell'organizzazione dei servizi psichiatrici è oggi necessario un cambiamento, un salto in avanti di ordine culturale. Il punto della legge Basaglia relativo alla necessità di superare un ordinamento basato sull'idea che la malattia mentale, incurabile, chiedeva alla società di dare solo risposte "custodialistiche" è di fatto acquisito anche da quelli che sono i più critici, oggi, di fronte alle scelte di allora. La presenza di una rete, sul territorio, di centri di salute mentale (a Roma, al tempo in cui la riforma fu approvata, c'era solo un centro di salute mentale che serva l'intera provincia, oggi i centri sono una quarantina), la diffusione enorme degli psicofarmaci e il numero crescente di strutture che si occupano di questi problemi a livello residenziale e ambulatoriale propongono un quadro complesso che non sarebbe compatibile in nessun caso con un ritorno al passato del manicomio. Quello di cui dobbiamo renderci conto, tuttavia, è che quelle veicolate all'interno di tutte queste strutture sono teorie, ipotesi sulla malattia mentale e sulle cure profondamente diverse, che i modelli di intervento che da tali teorie discendono sono spesso inutilmente (e dannosamente) contraddittori, che le amministrazioni si trovano spesso nel momento delle scelte più significative, in balia di tecnici improvvisati e di parte.
Il problema di fondo, a mio avviso, è quello che riguarda il tipo di rapporto che l'operatore della salute mentale tende a stabilire tra il disturbo esibito da un certo paziente in un certo momento della sua vita e le circostanze concrete in cui tale disturbo si manifesta. Convinto del fatto per cui il disturbo (una crisi delirante-allucinatoria, per esempio, l'attacco di panico o l'episodio depressivo) è espressione semplice e diretta di una alterazione biochimica che si attiva criticamente, per ragioni sconosciute e imprevedibili, lo psichiatra biologico di oggi interviene molto rapidamente (dopo aver cioè riconosciuto e considerato i sintomi, senza fare molte altre domande) con i farmaci che più gli sembrano adatti. il mondo dei suoi pazienti si divide, a questo punto, i quello dei "responders" (che rispondono al trattamento) e quello dei no-responders" (detto in inglese sembra più"scientifico") per cui c'è, purtroppo, poco da fare oltre che aumentare o variare dosi e tipologia di farmaci. Organizzata sul modello medico che la ispira, la psichiatria biologica di oggi prevede, coerentemente, dal punto di vista dei ruoli professionali, medici con il camice bianco al vertice dell'organizzazione, psicologi, assistenti sociali e infermieri che lo aiutano aiutando il paziente ad accettare la terapia (a sostenere cioè quella che, sempre in inglese, si chiama oggi "compliance" con la terapia stessa); dal punto di vista delle strutture ambulatoriali per il primo intervento, ospedali e case di cura per le situazioni acute che richiedono dosi alte di farmaco, strutture residenziali protette per i più gravi che non si riprendono.
Sull'altro versante, e in modo oggi vivacemente contrapposto, la psichiatria delle relazioni interpersonali ragiona sul comportamento sintomatico come su una comunicazione complessa. Un enigma da decifrare (l'immagine è di Sigmund Freud) come un sogno, un lapsus, un oracolo o un rebus della settimana enigmistica tenendo conto della storia personale e familiare e del contesto in cui il paziente si muove. Comprendere è, per chi crede in questa seconda possibilità, la base del curare: nei casi più semplici semplicemente aiutando a capire quello che sta succedendo e in quelli più complessi, in cui quello che serve è anche, o soprattutto, "cambiare", aiutando chi sta male a costruire rapporti diversi (la terapia familiare o di contesto) con le persone che per lui/lei sono più importanti. Centrale per chi accetta il primo modello, il ruolo del farmaco (e del medico che lo prescrive) diventa qui un ruolo secondario di sostegno. Indispensabile nella fase acuta perché permette l'accesso ad un rapporto altrimenti impossibile e mai o quasi mai sufficiente da solo, però, perché l'azione del farmaco è inevitabilmente sintomatica, incapace di incidere sulle cause e sulle conseguenze reali del disturbo in atto. Con conseguenze importanti dal punto di vista dell'organizzazione dei servizi, ovviamente, perché quella di cui c'è più bisogno, per i sostenitori di questa seconda visione della psichiatria, è una formazione psicoterapeutica degli operatori, una disponibilità ampia di risposte, nel privato e nel pubblico, basate su questo tipo di competenze. Nei casi più gravi, di strutture basate sull'idea della Comunità Terapeutica invece che delle case di cura; in quelli più difficili da curare sul territorio, di una integrazione forte dei presidi sociali e sanitari.
Difficili da conciliare, queste opposte visioni della psichiatria esistono comunque. In termini di rapporto con la classe sociale dell'utenza per esempio, esse si presentano come assai diversamente rappresentate in un sistema sanitario come il nostro per cui l'aspetto medico è prevalente: chi ha soldi e cultura può scegliere e si rivolge sempre più spesso al modo degli psicoterapeuti: chi non ha soldi e/o non ha letto molti libri è costretto naturalmente, invece, ad accontentarsi dei farmaci. Anche se i tentativi di integrazione sono sempre più frequenti, come è naturale in un mondo che è, comunque, in continua evoluzione.
La cosa di cui sono sempre più convinto è che, alla fine, può essere un po' riduttivo stabilire dei legami diretti fra le categorie della politica e quelle dei modelli teorici a cui ci si ispira organizzando i servizi. Il problema vero, a volte, sembra quello dei tecnici cui ci si rivolge chiedendo consiglio. Con risultati paradossali, a volte, come accade oggi a una destra che chiede solo a San Patrignano (dove i farmaci sono considerati "diabolici") cosa si deve fare con i tossicomani e che chiede solo a psichiatri senza formazione psicoterapeutica (e capaci solo d'usare i farmaci) cosa si deve fare con le persone che soffrono di disturbi psichici.
Quello di cui ci sarebbe bisogno, cara Anna Maria, è di finirla una buona volta con i tecnici "onnipotenti" apparentemente al servizio del politico che vince le elezioni ma al servizio, sostanzialmente, delle lobbies di cui fanno parte. Interdisciplinari e compositi, gli organismi tecnici di consulenza per le politiche sociali e sanitarie dovrebbero funzionare in modo più equilibrato, più autonomo dal potere politico e più serio aiutando chi deve decidere a decidere per il meglio.
Riuscirà l'Ulivo, nei giorni in cui tornerà al governo, a riflettere seriamente su questo tipo di problema? Io spero proprio di sì. La mancanza di un collegamento stabile ed efficace fra i progressi delle conoscenze scientifiche e le decisioni assunte a livello dell'amministrazione dipende soprattutto dalla debolezza delle istituzioni scientifiche di riferimento e dalla incapacità degli amministratori di costruire occasioni di confronto utile fra operatori di diverso orientamento. Si tratta di un problema sempre più evidente e sempre più grave: a livello della psichiatria in modo particolare ma non solo, comunque, a livello della psichiatria.