Il fattore Dio
nel voto Usa
(segue dalla prima pagina)
«Per la prima volta ho sentito che Dio è alla Casa Bianca», esclama Tricia, con la voce strozzata dall´emozione. «Dio sia lodato. Grazie che ci hai dato George W. Bush».
Sono quattro milioni, tra gli stati del Sud e del Midwest, gli evangelici della Bible Belt, la cintura della Bibbia. Una macchina da voto travolgente, decisivi col loro appoggio negli swing states, gli stati traballanti dove i due candidati sono alla pari. Per loro questa è la Santa Battaglia, Lepanto contro i Turchi, la Liberazione dall´Egitto. Quello di oggi, per loro, non sarà un voto per eleggere il 44° presidente degli Stati Uniti d´America, ma la difesa suprema dei valori della moralità, nuova crociata del 2000 che Bush, born again, cristiano rinato, ha dichiarato di voler capitanare.
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Mai come in queste elezioni la religione in America è diventata il tema politico cruciale, quello su cui il Paese, ma soprattutto Bush e Kerry, dicono di voler giocare il proprio futuro. Potendo vantare un assai misero carnet di risultati ottenuti, visto che nei suoi quattro anni di presidenza si sono persi un milione e 600 mila posti di lavoro e il bilancio statale è al limite della bancarotta, il presidente Bush ha puntato tutto sull´apocalisse finale, lo scontro tra il Bene e il Male, la difesa dell´America o la sua dissoluzione, il drago dalle sette teste e il sangue dell´Agnello. Non c´è comizio, discorso o appello presidenziale che non trabocchi di citazioni dalla Bibbia, di riferimenti alla città sulla collina, alla luce radiosa e alle tenebre della valle di Josafat.
Non è da meno il candidato democratico John Kerry che in questo ultimo mese s´è fatto almeno tre messe ogni fine settimana, citando dovunque il suo passo preferito, san Giacomo, 2, 14-26, «la fede senza le opere è morta», in risposta all´avversario presidenziale.
Nei suoi discorsi sul futuro dell´America e del mondo, ha ripetuto alla nausea che da piccolo, lui cattolico praticante, ha fatto il chierichetto e anzi, aveva pensato di diventar prete. Poi la politica e la guerra in Vietnam avevano preso il sopravvento, ma sulla sua fede - dice- nessuno può dubitare.
Del resto, tutti i sondaggi di queste settimane lo dicono chiaramente: il 70% degli americani vuole come presidente «un uomo timorato di Dio e di forte fede». Chiunque dei due sarà eletto, questo dovrà fare. «In America il senso religioso è molto forte, è l´elemento che crea comunità», spiega il sociologo di Harvard Robert Putnam, famoso anche in Italia per i suoi studi sulla crisi della cultura civica americana («Bowling alone»). «Negli Stati Uniti ogni significativa riforma, compreso il movimento dei diritti civili o la lotta alla schiavitù, ha avuto profonde radici religiose - afferma Putnam-. Storicamente non c´è sindacato o altra realtà sociale così incisiva nella società americana come le chiese. Certo, questa forza può essere usata in chiave fondamentalista e conservatrice, come è avvenuto negli ultimi vent´anni, o in chiave progressista, come è avvenuto a lungo nei decenni precedenti. Ma la religione resta un forte elemento propulsivo della società e della politica americana».
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Che la carta della fede fosse quella da giocare, Bush l´aveva capito fin dal 1988, quando faceva propaganda per suo padre, e intuì la forza elettorale dei telepredicatori alla Pat Robertson. Alla fine degli anni Settanta l´America, prostrata dalla sconfitta del Vietnam e confusa dal libertarismo sessantottino e femminista, ripiegò sulla fede.
Milioni di americani chiedevano qualcosa di forte in cui credere, dei valori a cui aggrapparsi, e le chiese divennero la consolazione. Fu l´abilità della destra a comprendere che quella massa di "nuovi cristiani" poteva essere politicamente organizzata.
«Mentre i cristiani liberali dormivano, i fondamentalisti hanno costruito la loro potente rete», spiega Robert Edgar, segretario generale del consiglio nazionale delle chiese, che a settembre era a Milano alla settimana ecumenica della Comunità di S.Egidio. «Chiedevano a tutti un dollaro a preghiera. Ma soprattutto chiedevano il loro indirizzo e la lista dei valori in cui credevano. È lì che è nata la falange della destra cristiana».
Così, temi come l´aborto, le cellule staminali, i matrimoni gay e l´eutanasia sono diventati centrali dell´agenda politica, cancellando ogni riferimento a questioni come le politiche sociali, i diritti delle minoranze, i fondi per la salute e l´istruzione, la pena capitale, i morti in guerra, che sono stati volontariamente ignorati dalla campagna elettorale.
Per Kerry un grattacapo mica da poco. Lui, cattolico della cattolica Boston, s´è visto osteggiare perfino dai vescovi cattolici, perlomeno da alcuni, che l´hanno additato come pubblico peccatore, e come tale scomunicato, escluso dalla comunione. «Votare Kerry è un peccato che richiede la confessione» ha tuonato padre Charles Chaput, frate cappuccino e arcivescovo di Denver. E monsignor Bernard Schmitt, vescovo di Wheeling-Charleston, in West Virginia, ha scritto ai suoi parrocchiani per ricordare che votare Kerry «è peccato mortale», visto le sue posizioni liberali sull´aborto e le cellule staminali, subito spalleggiato dall´arcivescovo di St. Louis, Raymond Burk, che ha scomodato il giudizio di Dio come a Sodoma e Gomorra se l´America consentirà il matrimonio dei gay.
Nonostante questo, i cattolici, la chiesa più numerosa d´America, è divisa a metà, con una percentuale di favorevoli a Kerry, maggiore che per Bush. L´ultimo sondaggio Pew ha stabilito che il 41% dei cattolici sono per Bush e il 44% per Kerry. «Forse va ricordato che oltre all´aborto e alla ricerca sulle cellule staminali, c´è anche il tema della guerra e la pena di morte, a cui un cattolico dovrebbe guardare quando va a votare», ha detto chiaro e tondo padre Bryan Hehir, docente di teologia all´università di Harvard. «Per non parlare poi dell´aiuto ai più deboli, ai poveri, ai bambini abbandonati, di cui in America ormai non parla più nessuno».
Proprio per questo le chiese battiste degli afro-americani hanno scelto al 90% di appoggiare Kerry, il democratico. «Se vince Bush, per la comunità nera è la fine», ripete sconsolato il professor Lawrence Bobo, che insegna Sociologia e Storia degli afroamericani ad Harvard. «Negli ultimi quattro anni ha azzerato tutti finanziamenti alle scuole per i neri e agli aiuti sociali per le minoranze. Sta cercando di portarci via anche il voto, con campagne intimidatorie per impedire ai neri di votare. La comunità nera è molto arrabbiata. Molto. Se Bush sarà rieletto, per noi è la fine».
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Eppure, nonostante far quadrare il bilancio familiare sia diventato il problema principale della classe media americana, che negli ultimi quattro anni s´è vista declassare il proprio ruolo per stipendi e sicurezza del lavoro, molti ritengono che mettere fuorilegge l´aborto venga prima che creare nuovi posti di lavoro.
Come gli operai di Cleveland, in Ohio, dove negli ultimi quattro anni s´è perso un posto di lavoro su cinque con il trasferimento all´estero degli stabilimenti della Firestone e della Goodyear, che davanti alle telecamere della televisione hanno confessato: «Bush ci fa del male, è vero. Ma non possiamo votare Kerry: la coscienza morale viene prima di tutto».
Questa è l´America che oggi, il giorno dei Morti, andrà a votare. E se anche le organizzazioni dei cristiani, cosiddetti liberali, si stanno mobilitando per riprendersi il terreno perduto nel nome della giustizia sociale e del sostegno ai derelitti che a migliaia dormono sui marciapiedi delle strade, la parola d´ordine di queste elezioni è una sola: moralità. E Bush l´immorale, che sotto la sua presidenza ha visto aumentare in massa il numero degli aborti perché ha cancellato ogni sussidio per le ragazze madri, ne è il profeta. «Perch Gesù Cristo è il suo più fidato consigliere», ha detto dall´altare un telepredicatore della Florida. E giù tutti a battere le mani. Hallelujah.