giovedì 30 dicembre 2004

illuministi e catastrofi /2

L'Arena Mercoledì 29 Dicembre 2004
Riuniti in un volume i saggi che i pensatori del XVIII secolo scrissero dopo il terremoto che rase al suolo la popolosa capitale del Portogallo
Una catastrofe del ’700
Lisbona distrutta: la colpa fu di Dio o degli uomini?

Il 31 ottobre 1931, dai microfoni della radio Berliner Rundfunk, il pensatore tedesco Walter Benjamin tenne una conferenza sul terremoto che nel 1755 aveva raso al suolo Lisbona, una catastrofe che aveva impressionato l'Europa molto più di altri sismi. Pochi anni prima, nel 1746, anche Lima, la capitale del Perù, era stata distrutta; e all'inizio del Settecento in Cina un terremoto aveva lasciato dietro di sé ben duecentomila morti. Ma nessuno di quei disastri aveva commosso gli abitanti dell'Europa quanto quello che colpì così duramente la capitale del Portogallo, famosa per la sua bellezza e il suo porto. Il terremoto di Lisbona, che ridusse a un cumulo di macerie quella città di 275.000 anime, fu un evento epocale, destinato ad avere riflessi persino in campo filosofico: per alcuni studiosi esso segnò l'inizio dell'età moderna. Ha scritto infatti Judith Shkar nel saggio I volti dell'ingiustizia : "A fare di esso un disastro memorabile non è la distruzione di una città ricca e splendida, né la morte di dieci-quindicimila persone sotto le macerie, bensì la reazione intellettuale innescatasi in tutta Europa."
Certo, a quei tempi, come fece notare Benjamin, Lisbona rappresentava quello che per noi oggi rappresentano Londra o Chicago, e per giunta si trovava in Europa: anche per questo il suo tragico destino suscitò tanto sgomento. Ma c'è un altro fondamentale motivo che spiega perché esso ebbe una tale eco.
La tragedia di Ognissanti del 1755 ebbe una risonanza "mediatica" tutta nuova: la notizia si diffuse ovunque per mezzo di bollettini, gazzette, almanacchi e rapporti degli ambasciatori. A Parigi, Londra, Venezia o Napoli le terribili scene descritte da quei fogli - le scosse sopraggiunte mentre una massa di fedeli era riunita nella Basilica di Santa Maria per la Messa di Ognissanti, il panico fra gli edifici che crollavano, il maremoto con onde altre fino a otto metri che subito dopo aveva sconvolto la foce del Tago spazzando via le macerie e molti dei superstiti, e infine l'incendio che si era protratto per più di una settimana - si trasmisero di bocca in bocca.
Spiega bene che cosa significò allora questo evento e la reazione del popolo e degli intellettuali il libro Sulla catastrofe. L'Illuminismo e la filosofia del disastro (Bruno Mondadori, 151 pagine, 18,00 euro), nel quale Andrea Tagliapietra, docente di Storia della filosofia moderna all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha riunito alcuni scritti di Voltaire, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, oltre a un saggio di Paola Giacomoni (che insegna Storia della filosofia all'Università di Trento).
L'interrogativo che sorse spontaneo nelle persone comuni di fronte a quell'agghiacciante catastrofe fu : come poteva Dio permettere un simile dolore? E molti la interpretarono come la meritata punizione divina per il lusso e la corruzione degli abitanti di Lisbona. Ma ben più articolate furono le riflessioni che essa suggerì ai maggiori pensatori del tempo. Voltaire, in particolare, sentì il bisogno di confutare la visione ottimistica del mondo impostasi dall'inizio del Settecento e che aveva i suoi maggiori esponenti in Gottfried Leibniz e Alexander Pope. Con toni vibranti e spesso lirici, il filosofo francese nel Poema sul disastro di Lisbona stilò una requisitoria contro l'idea dominante che l'uomo vivesse nel migliore dei mondi possibili.
"L'autore - scrive Voltaire nella prefazione al Poema - non intende combattere certo contro l'illustre Pope? Tuttavia, sensibile alle sventure degli esseri umani, egli insorge contro gli abusi che si possono fare di questo antico assioma 'Tutto è bene', e gli affianca quella triste e ancora più antica verità, riconosciuta dall'umanità intera, che il male sulla terra esiste. (...) Quando Lisbona ed altre città furono inghiottite al suolo, (...) se alcuni filosofi avessero gridato, rivolti a quegli infelici appena scampati dalle macerie, 'Tutto è bene, gli eredi dei morti accresceranno le loro fortune, i falegnami avranno il loro bel guadagno ricostruendo le case, mentre gli animali si nutriranno dei cadaveri sepolti fra le rovine?', certamente tale discorso sarebbe stato tanto crudele quanto il terremoto fu funesto."
Con commoventi parole il Poema affronta la drammatica questione del dolore innocente, che ritroveremo nel Grande Inquisitore di Dostoevskij, chiedendosi quale colpa avessero i bambini rimasti vittime del sisma, "schiacciati e ricoperti di sangue sul seno materno", e stigmatizzando poi l'insensibilità di molta parte dell'umanità con queste parole lapidarie : "Lisbona è distrutta e a Parigi si balla."
Nel giugno del 1756 Voltaire inviò il Poema a Rousseau nella convinzione che questi avrebbe sottoscritto la sua invettiva contro la concezione che tutto ciò che accade - compreso il dolore individuale - sia in funzione del bene generale; ma ne ricevette una risposta piuttosto sprezzante. Rousseau accusò il collega di ingigantire talmente le miserie umane da aggravarne il peso, e imputò esclusivamente agli uomini la colpa di quanto era accaduto a Lisbona: gli effetti del sisma disse - sarebbero stati meno violenti, e forse, anzi, esso non ci sarebbe neppure stato, se la popolazione si fosse distribuita più equamente sul territorio anziché affollare la capitale stipandosi in case sempre più alte. Una tesi condivisa da Kant, che però notò anche come quella tragedia dimostrasse i limiti dell'uomo e come ogni opera umana fosse destinata a divenire, prima o poi, polvere.
A noi uomini del terzo millennio quell'avvenimento che divise gli illuministi suscita, come rileva Andrea Tagliapietra nella sua dotta introduzione, altre considerazioni : "Il terremoto di Lisbona rappresenta un momento iconico nella società moderna e contemporanea, dove il rischio e non più il pericolo viene immaginato come permanente."