mercoledì 22 dicembre 2004

madri assassine

donnamoderna.com 21dic04
Le mamme che uccidono sono pazze o cattive?
In un mese tre madri hanno commesso il delitto più atroce: togliere la vita ai figli a cui l’avevano data. Un orrore che ultimamente si è ripetuto troppo spesso. E che ora ci costringe a porci un interrogativo lacerante. Per capire se all’origine di un gesto tanto drammatico c’è la follia. O l’odio
di Antonella Trentin

[...]
Storie d’orrore come queste sono esplose soprattutto negli ultimi anni, quasi che una follia omicida si fosse impadronita delle madri più fragili. Secondo l’istituto di ricerche economiche e sociali Eures, soltanto nel 2003, 14 piccoli sono stati ammazzati dalla loro mamma. «È una realtà che fatichiamo ad accettare, perché ci sembra contro natura» spiega Giancarlo De Cataldo, giudice di Corte d’Assise e scrittore di romanzi gialli. «Siamo convinti che una donna non possa uccidere il cucciolo che ha partorito. Invece accade: progresso e benessere economico non hanno cancellato il più atroce fra tutti i delitti».
Il corto circuito della mente
Cosa trasforma una madre in assassina? «Il cervello è una scatola nera, non sappiamo cosa c’è dentro» dice sconvolta Ivana Notari, la nonna di Angelica Sofia. Vincenzo Mastronardi, docente di Psicopatologia forense all’Università di Roma La Sapienza, ha appena studiato quello di 38 madri assassine, e un’idea se l’è fatta. «Oggi le donne sono costrette a svolgere un’infinità di ruoli, anche maschili» riflette il criminologo. «Devono fare carriera sul lavoro, essere mogli seduttive e mamme modello. Ovvio che quelle meno solide crollino. A volte basta poco per mandarle in pezzi: un problema economico, un insuccesso professionale, il sentirsi poco amate. Una paziente mi ha rivelato che quando guarda i suoi due bambini piccoli viene presa dallo sconforto.
“Sono bellissimi e li ho voluti. Ma ora mi chiedo come farò a crescerli senza sacrificare la carriera. Sono destinata alla sconfitta” dice tra le lacrime». È d’accordo con Mastronardi anche un medico che queste donne a pezzi le incontra ogni giorno: Giuseppe Gradante, primario della sezione femminile dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova). Qui arrivano da tutta Italia le madri assassine che sono state giudicate malate di mente: oggi sono una ventina. Le altre, forse più lucide, scontano la propria pena in un carcere normale, schiacciate dalla più infame delle colpe. «Malate o sane che siano, queste donne hanno gravi problemi con la famiglia d’origine o con il marito» spiega Gradante. «Sono state maltrattate da piccole oppure da grandi vivono in coppie dove regna un silenzio spesso come un muro. Nel loro caso, la gravidanza è una specie di detonatore.
Il bambino piange, ha fame, deve essere accudito. Diventa un onere insopportabile, il simbolo della loro incapacità, la causa di tutti i mali. E così lo uccidono». Sono tante le cause che accendono la disperazione omicida. Il trambusto ormonale post-parto accompagnato dalla depressione: si chiama “baby blues” e in un caso su mille degenera in follia. Oppure la gelosia, che spinge alcune donne a colpire il figlio per vendicarsi del compagno. O ancora una visione tragica della realtà, tipica dei suicidi allargati come quelli di Cremona e Volpiano: «Figlio mio, il mondo è orribile» pensano queste madri «e la morte è l’unica salvezza per entrambi».
Il dramma di essere sole
La solitudine fa quasi sempre da sfondo alla tragedia delle Medee moderne. «La nostra vita a Torino è stata un grande deserto» ha ricordato con voce rotta Giampaolo Sellitto davanti alla bara della figlia Nausica. «La mia piccola mi è stata tolta prima che si perdesse, com’è accaduto a me e a sua madre». Già, perché nelle città di oggi ci si può perdere, precipitare nel nulla, senza che nessuno se ne accorga. «Viviamo in un Paese ipocrita» accusa il giudice Giancarlo De Cataldo. «Diciamo sempre che la famiglia è il cuore della nostra società, ma nei fatti le coppie vengono lasciate sole. Non hanno aiuti economici, né servizi cui appoggiarsi». Il criminologo Mastronardi ricorda il caso di una madre angosciata perché a 3 anni sua figlia non parlava ancora. «La donna ha chiesto una visita accurata al pediatra, ma il dottore le ha risposto di non avere tempo, e di ripresentarsi dopo due mesi. Troppi. In quel periodo lei ha trasformato i suoi dubbi in un’ossessione martellante. Si è chiusa sempre più in se stessa e alla fine ha annegato la figlia per liberarla dalla sua presunta inadeguatezza. Per evitare il dramma, forse, sarebbe bastato ascoltarla e tranquillizzarla». Una madre “normale” avrebbe consultato un altro medico, avrebbe parlato delle proprie ansie con uno psicologo. Lei no. Spesso una donna fragile e introversa non ha il coraggio di riconoscere la propria sofferenza. E, quando lo fa, non trova nessuno che l’aiuti. Come Sabrina, la mamma di Cremona, che trascorreva la maggior parte della settimana da sola perché il marito lavorava a Terni.
Le colpe della famiglia
«Il vero scandalo sono i familiari» accusa Maria Rita Parsi, psicologa e presidente della Fondazione Movimento bambino. «Come possono non accorgersi di quello che sta accadendo? Non affiderebbero mai un piccolo a una persona ferita a un braccio: perché allora lo affidano a una donna ferita nell’anima? I bambini hanno il diritto di vivere senza essere maltrattati. E queste donne soffrono di un disturbo grave della personalità, che non può passare inosservato. Devono essere fermate, curate in tempo». Nell’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere vengono assistite quando è ormai troppo tardi. «Sono trattate con psicofarmaci e psicoterapia» spiega il primario Giuseppe Gradante. «Ma la vera cura è il lavoro». Un’occupazione concreta offre alle madri assassine una nuova prospettiva di vita e le distrae da angosce divoranti. Qui possono frequentare una scuola, dipingere, fare scultura, persino palestra. In molti casi vedono anche i mariti. Solo il 40 per cento degli uomini, infatti, si separa dopo tragedie del genere: la maggior parte capisce che la moglie ha ucciso il figlio in un momento di follia e la perdona. Sono loro, le donne, a non assolversi. Preferiscono rimuovere il delitto, cancellare il ricordo. Qualcuna dimentica per anni, poi un bel giorno si precipita nel mio studio urlando: “Dottore, che cosa ho fatto!”. È il momento più delicato, dobbiamo sorvegliare queste pazienti notte e giorno. Perché non si uccidano».