sabato 4 dicembre 2004

da "Avvenimenti" adesso nelle edicole
un articolo di Federico Masini

ricevuto da Simona Maggiorelli

Da Avvenimenti numero 47
adesso nelle edicole
Gemelli diversi L’effetto Cina giova al Giappone che guarda con curiosità alle possibilità dell’economia e della cultura cinese
di Federico Masini*

Osaka (Giappone) 22 novembre 2004: Mi sono sempre chiesto perché la Cina e il Giappone nella lontana, e di questi tempi tanto piccola, Italia siano sempre stati confusi, come se l’oriente estremo fosse un tutt’uno, di gente dalla carnagione giallastra e dalla bassa statura. In realtà questi due paesi hanno condiviso grandi pezzi della loro storia, pur essendo radicalmente diversi, per usi, costumi e lingua; e forse in questi primi anni del nuovo millennio stanno nuovamente vivendo un periodo di grande sintonia economica e culturale, sviluppando, come altre volte nella loro storia, una fase di fecondo reciproco scambio.
Il Giappone è stato per millenni un paese chiuso ad ogni influenza esterna, ad eccezione di brevi periodi durante i quali subì fortemente l’influsso della cultura classica cinese, che insegnò a questo popolo un sistema di scrittura che poi, una volta rielaborato e trasformato, ha dato luogo alla complessa scrittura giapponese, unica al mondo per il fatto di impiegare, concorrentemente quattro distinti sistemi di trascrizione dei suoni: lettere del nostro alfabeto, caratteri cinesi e due alfabeti sillabici, fatti da segni derivati dalla scrittura cinese, impiegati foneticamente per trascrivere parole autoctone o prestiti dalle lingue occidentali. La Cina invece ha sviluppato un sistema di scrittura originale in tempi antichissimi e ad esso è restata fedele nei millenni, potendo oggi vantare forse uno dei più longevi sistemi di scrittura al mondo. Già da questo si possono osservare due diverse attitudini rispetto al mondo esterno: uno plastico e apparentemente disponibile all’assorbimento di influenze esterne ed uno chiuso e refrattario ai cambiamenti derivanti dallo sconto con altre civiltà. Così è andata anche la storia dei rapporti con l’occidente: la Cina fu la prima a scontrarsi con le potenze occidentali durante i primi decenni del XIX secolo, ma non reagì, se non dopo massacranti guerre, che imposero progressivamente al paese una sorta di protettorato straniero, conducendola alla fine all’abbandono del sistema imperiale e ad una estenuante guerra civile, che terminò solo nel 1949 con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Il Giappone invece fu conquistato dalla moderna cultura americana nella seconda metà del XIX secolo, senza che fosse stato necessario sparare un solo colpo di cannone, e procedette speditamente sulla strada della modernizzazione economica e scientifica, conservando il proprio sistema imperiale grazie ad un efficace riforma costituzionale.
La Cina è stato il paese delle rivoluzioni. Mentre il Giappone quello delle riforme. Oggi a distanza di quasi due secoli, il Giappone appare quindi come un paese in cui l’Occidente è presente in maniera compiuta, senza che abbia intaccato più di tanto le ataviche tradizioni nazionali - il sistema imperiale, lo shintoismo (la religione tradizionale), i costumi sociali - e dove tradizione e modernità convivono in apparente armonia; mentre la Cina dopo aver faticato ad aprirsi al mondo esterno, finalmente (chissà!) solo ora inizia a vedere le sue città pullulare di occidentali, ancora visti come mosche rare, assorbendo i modi del mondo occidentale in maniera a volte acritica, asettica e in radicale contrasto con ogni permanenza delle proprie tradizioni culturali, minate da anni di semicolonizzazione, guerre di occupazione, influenze sovietiche e maoismo.
Oggi questi due paesi visti da vicino appaiono come uno l’opposto dell’altro, ma al tempo stesso sembrano condividere aspetti salienti. L’economia giapponese, proverbialmente forte durante gli anni Ottanta, ha subìto un notevole rallentamento negli anni Novanta, per iniziare a decollare nuovamente adesso, proprio grazie all’effetto traino esercitato dall’economia cinese, che negli ultimi anni ha visto crescere la propria economia ad un tasso annuale a due cifre. Se dell’effetto Cina ha potuto godere l’economia americana e quindi mediatamente anche quella europea; il paese che in questo momento ne ha tratto più giovamento è proprio il Giappone che ha riversato sulla Cina le proprie esportazioni di tecnologia e di capitali. A fronte di tali relazioni economiche e commerciali, però Cina e Giappone non smettono mai di avere notevoli attriti politici, dovuti tanto al desiderio della Cina di estendere la propria supremazia militare nel bacino dell’Asia orientale, quanto alla riluttanza del Giappone di disfarsi del proprio passato militarista. Al tempo stesso però la Cina accusa sempre più un debito “culturale” nei confronti del Giappone: esportatore di cultura imprenditoriale e di civiltà sociale verso la Cina, paese sempre meno incline ai comportamenti socialmente corretti, nonostante voglia ancora dichiararsi ispirato ai principi del socialismo. Un caro amico e collega cinese, ormai naturalizzato giapponese, mi diceva appunto che nulla sarebbe più auspicabile che la Cina importasse dal Giappone della cura per la realtà collettiva: quell’insieme di naturali comportamenti civili che consentono l’armonica convivenza di grandi masse di popolazione, pur se ristrette in spazi angusti dove la densità della popolazione raggiunge i massimi livelli al mondo, e il rispetto dell’igiene pubblica. Negli spaventosi assembramenti di gente che affollano le stazioni della metropolitana ed i centri commerciali, le persone scorrono senza neppure sfiorarsi, senza mai però dare l’impressione di omologazione che potrebbero suggerire tanto ordine e pulizia. In Cina, invece, le folle sembrano scomposte e rissose, e si accalcano alle fermate dei mezzi pubblici come paventando sempre la possibilità di perdere l’occasione di assicurarsi un posto. La raccolta differenziata dei rifiuti è così diffusa e capillare in Giappone che, nelle zone residenziali che circondano i grandi centri urbani, fatte di case basse e minute, non esistono neppure i cestini per le strade; mentre in Cina cataste di immondizia circondano spesso anche le strade dei centri urbani maggiori, come Pechino e Shanghai. Sembra che la modernità del Giappone non abbia intaccato le sue tradizioni, ma sia stata digerita durante un lungo periodo di gestazione e raffinamento, mentre in Cina l’occidente moderno è arrivato fra singulti e folate e non ha ancora trovato il tempo per venir assimilato e reso armonico con la sua grande tradizione culturale. Anche il diverso panorama umano suggerisce paragoni e dissimetrie: le donne giapponesi appaiono curate nell’aspetto, variano nell’abbigliamento e nelle acconciature, mentre l’altra metà del cielo cinese, raramente mostra grazia e cura nel vestire. Il Giappone, da terra di conquista delle mode occidentali, oggi potrebbe invece essere la fonte di alcuni atteggiamenti che da esso si sono diffusi nel mondo, in primo luogo proprio in Cina. Ad esempio forse scorgiamo nel Giappone la fonte della moda dei nostri ragazzi di tenere sempre allacciate le scarpe, senza mai sciogliere i lacci: tipica abitudine giapponese dettata dal bisogno costante di essere sempre pronti a togliersi le calzature tutte le volte che si entra in un luogo chiuso, sia esso una palestra, un tempio o una casa privata, dove pavimenti laccati sembrano non essere mai stati calpestati da suola alcuna. Anche le teste dei ragazzi cinesi e giapponesi, così simili per la rigidità dei loro capelli corvini, appaiono diverse: sempre pareggiati e uguali quelli dei cinesi, e sempre ostinatamente scalati e variati quelli di ragazzi e ragazze giapponesi, con forme tanto inusuali, quanto curatissime nel loro, apparente, disordine, vigilato con specchi sempre a portata di mano.
I giovani giapponesi, proprio come quelli italiani - e questo è l’aspetto che più mi colpisce - sembrano oggi guardare alla Cina con estremo interesse, tentati dalle grandi prospettive economiche del gigante asiatico verrebbe da pensare. Ma vale forse la pena di interrogarsi sul perché a Roma come a Osaka la seconda lingua studiata nelle università, dopo l’immancabile inglese, sia proprio il cinese. Gli studenti a cui faccio lezione qui in Giappone, sembrano proprio uguali a quelli che ho lasciato a Roma: curiosi di un mondo molto più simile al loro che al nostro, ma pur sempre diverso. Per i ragazzi italiani la Cina è l’ultima frontiera del mondo moderno, per quelli giapponesi è la terra cui i loro avi hanno sempre guardato con rispetto e che hanno tentato di conquistare militarmente negli anni Trenta; mi sembra ciononostante di scorgere una comunanza di intenti in questi giovani: un profondo interesse per una realtà tanto diversa dalla loro, il segreto di una civiltà millenaria, che dopo tanta cultura e moderazione ha attraversato un periodo di soggezione lungo oltre un secolo, per riuscire solo oggi a riaffacciarsi sulla scena mondiale, come unico reale contendente del modello nordamericano. Molti dei ragazzi che studiano cinese in Giappone, come alcuni in Italia, sono di origine cinese e hanno preso questa strada per ritrovare le proprie radici culturali. Raccontando ai ragazzi giapponesi che tanti in occidente non li distinguono dai cinesi, gli ho chiesto cosa sentono di avere in comune con i cinesi: "Noi giapponesi, come i cinesi, siamo dei gran lavoratori - mi ha risposto un ragazzo - e solo grazie al nostro lavoro siamo riusciti a riscattare la nostra condizione". Forse voleva dire che la modernità da queste parti è stata conquistata - da tempo in Giappone e solo ora in Cina - a duro prezzo, per impedire che travolgesse oggi identità culturale, diventando solo omologazione.
Il Giappone, nonostante quello che si pensa, sembra essere sfuggito all’omologazione americana, riuscendo a mantenere vivo il retaggio di un’antica cultura propri di un popolo del quale ancora oggi si ignora l’origine e la parentela genetica. Il Giappone sembra quindi un paese ormai stabilizzato nel suo rapporto con l’Occidente, il suo governo non è più in alcun modo percepito come una minaccia dagli altri paesi occidentali, in particolare dagli Stati Uniti, essendo ormai stabilmente entrato a far parte delle potenze sviluppate del mondo. La Cina, invece, costituisce la vera minaccia del XXI secolo, con il suo ribollire di azzardate esperienze economiche e singolari sperimentazioni politiche, volte ad incentivare i meccanismi di controllo sociale, non potendo o non volendo aderire acriticamente al modello delle democrazie occidentali. Il Giappone invece è una democrazia con suffragio universale, ma conserva al potere la più antica dinastia di imperatori al mondo, anzi forse l’unica insieme a quella dei Papi! In Cina tutto sembra cambiare da un giorno all’altro: il paesaggio urbano come le strutture amministrative ed il sistema legale sono in continua trasformazione; in Giappone tutto sembra regolato una volta per sempre, come fosse il frutto di un sapiente e delicato equilibrio fra spirito collettivo che impregna tutti gli appartenenti alla medesima azienda o università che sia, e culto della personalità individuale che trova la sua massima realizzazione nella vita privata fatta di rituali e di gelosa conservazione della propria privacy. In Cina invece, a fronte di un formale e ostentato spirito collettivo, l’individualismo è assolutamente mal tollerato e mai si potrebbe uscire o entrare in casa senza che il proprio vicino non ne fosse a conoscenza.
Per certi aspetti il Giappone sembra un paese più collettivista della Cina, che ancora si dichiara comunista, ma al tempo stesso la Cina è un paese dal quale attendersi ancora molto, mentre il Giappone sembra invece staticamente destinato a perpetrare se stesso. Il Giappone, inoltre, come la Cina non appare un paese impregnato di sentimenti religiosi; se in Cina le religioni tradizionali, una autoctona, il taoismo, ed una importata dall’India, il buddismo, sono ormai completamente sbiadite e ridotte a pallidi simulacri, in Giappone, lo shintoismo, religione ufficiale di Stato e il buddismo, qui anticamente giunto dalla Cina, godono ancora di vitalità, ma senza mai che i loro sentimenti pervadano la vita pubblica, essendo eventualmente ed esclusivamente contenuti nella sfera dei comportamenti privati. Società quindi collettivamente atee entrambe, anche se in Giappone la religione sembra mantenere una vitalità legata alla conservazione delle tradizioni, mentre in Cina la religione non appare mai aver fatto compiutamente parte della vita sociale e collettiva della popolazione. Visti così da vicino e in rapida successione, questi due paesi lasciano sensazioni opposte, ma anche convergenti: un profondo sentimento d’irrequietezza e movimento la Cina, una silenziosa e rassicurante pace il Giappone; ma, pur nella loro diversità, entrambi stimolano nella ricerca di quello che tutti gli esseri umani condividono ad ogni latitudine.

*sinologo e preside della Facoltà di studi Orientali Università La Sapienza di Roma