Corriere della Sera 8.1.04
Quale politica estera per il centrosinistra?
LA VARIABILE BERTINOTTI
di ANGELO PANEBIANCO
La pubblica discussione sui «contenuti programmatici» di un eventuale governo di centrosinistra è iniziata. Michele Salvati ne ha scritto il 6 gennaio sul Corriere . Vale forse la pena, a questo proposito, segnalare l’esistenza di un problema delicato che richiederebbe, da parte del centrosinistra, una riflessione approfondita. Riguarda la politica estera. Non basta sostenere, come fanno i dirigenti del centrosinistra, che tutto ciò che serve all’Italia è «più Europa» e più «multilateralismo» nei rapporti fra Europa e Stati Uniti. Ci sono oggi due differenze importanti, una interna e una internazionale, rispetto al ’96, quando Prodi vinse le elezioni. Sul piano interno, c’è il fatto che Rifondazione comunista farà parte della coalizione di governo (nel ’96 appoggiava dall’esterno il centrosinistra). Sul piano internazionale, la differenza è che dall’11 settembre 2001 siamo immersi in uno scenario (sia pure atipico) di guerra. Nel ’96, invece, c’era la pace, sia pure perturbata da crisi locali. A prima vista, avremo dunque un centrosinistra con un baricentro più spostato a sinistra rispetto al ’96, in una fase dominata dalla guerra al terrorismo islamico sullo sfondo di un conflitto di civiltà.
In politica due più due non fa sempre quattro e, quindi, la partecipazione di Rifondazione a governi di centrosinistra non li paralizzerà necessariamente in presenza di nuove (purtroppo, assai probabili) crisi internazionali. Bertinotti sa bene che entrare nel governo significa pagare dei prezzi, anche in politica estera. Resta che, se sarà necessario usare la forza in qualche crisi, si porranno problemi notevoli per un futuro governo Prodi. Basti pensare che con Rifondazione al governo non sarebbe stato possibile per l’Italia, nel 1999, intervenire nel Kosovo. Né vale la tesi che la forza verrà usata dall’Italia solo con l’avallo dell’Onu. Il fatto è che Rifondazione, pur con tutta la buona volontà di Bertinotti, non potrà facilmente spezzare il legame, elettoralmente vitale, con quell’area pacifista «senza se e senza ma» a cui ben poco importa che cosa faccia o dica l’Onu.
Ci sono anche altri problemi. Nella sinistra europea e anche italiana è diffusa l’idea che in Iraq sia in atto una «resistenza contro gli occupanti» (sottinteso: le elezioni in Iraq sono una truffa imposta dagli americani e dai loro fantocci). Come fronteggerà il centrosinistra - tanto più dopo la sconfitta del «suo» candidato presidenziale, John Kerry - un così pugnace antiamericanismo, presente in certi settori del suo elettorato?
All’Italia farebbe comodo che si ricomponesse in fretta la frattura fra gli Stati Uniti e quella parte di Europa che, durante la crisi irachena, si era riconosciuta nella leadership della Francia. Ma se ciò non avvenisse? Non è del tutto irrealistico ipotizzare che il duello fra Stati Uniti e Francia sulle questioni mediorientali possa continuare e che, per conseguenza, le divisioni all’interno dell’Europa permangano. Il tutto, magari, in presenza di un aggravamento della crisi irachena e dell’aggressione terrorista ad altri Paesi mediorientali, e con gli Usa, quindi, sempre più coinvolti nella regione. In un simile scenario, sarà lecito chiedersi se i nostri interessi e la nostra sicurezza saranno meglio tutelati dall’intesa con la Gran Bretagna e dall’allineamento con gli Stati Uniti (la politica dell’attuale governo) o, piuttosto, da un patto di ferro con la Francia, anche a costo di forti tensioni con gli americani, come sembra fin qui prevedere il copione del centrosinistra.
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