Corriere della Sera 3.1.05
LE PAROLE DEL PAPA
LA CATASTROFE E IL DESTINO
di EMANUELE SEVERINO
All’Angelus di domenica, a proposito della tragedia del Sudest asiatico, il Papa ha detto che Dio non abbandona i suoi figli nemmeno quando essi sono raggiunti dal dolore e dalla morte più atroce. Egli ha riproposto l’insegnamento tradizionale della Chiesa - che affonda peraltro le sue radici nella sapienza filosofica e in altro ancora. La filosofia stoica si era già espressa negli stessi termini che la Chiesa sin dal principio ha continuato a tener fermi. Il cristianesimo respinge la coincidenza tra dolore umano e punizione divina, tra colpa umana e dolore. I conti non si regolano in questa vita, ma nell’altra. (E i potenti e felici hanno trovato in questa dottrina cristiana molti motivi per rallegrarsi del loro stato).
Nel Vangelo di Luca (13), a chi gli riferisce del molto sangue dei Galilei che Pilato aveva versato, mescolandolo con quello dei loro sacrifici, Gesù risponde: «Pensate voi che quei Galilei fossero peccatori più di tutti gli altri Galilei, perché hanno sofferto a quel modo? No, vi dico; ma se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo. Oppure credete voi che quei diciotto sui quali cadde la torre di Siloe e li uccise, fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo».
Come Dio non abbandona i suoi figli nemmeno quando dolore e morte perseguitano nel modo più duro, così dolore e morte non sono il segno della colpevolezza di chi li subisce. Possiamo azzardarci a dire che il calvinismo, che vede nel successo mondano l’approvazione e la protezione di Dio, si è dimenticato di questo passo evangelico.
Che però lascia dubbiosi, perché se «chi non farà penitenza» - come dice Gesù - perirà «allo stesso modo» in cui son morti coloro che non erano più peccatori e più colpevoli degli altri, allora i non penitenti sono colpiti dalla morte proprio perché sono colpevoli e peccatori, appunto in quanto non hanno fatto penitenza. Sì che la morte colpisce sia coloro che non sono più colpevoli degli altri, sia coloro che invece si sono resi colpevoli non facendo penitenza. Questa contraddizione (o ingiustizia?) si complica, poi, perché se si può sospettare una qualche colpevolezza nei ricchi che fanno le loro vacanze nei Paesi dei poveri, i poveri - è ancora Gesù a dirlo - difficilmente li si può considerare come portatori di grandi colpe. «Beati coloro che piangono». Beati - dunque non colpevoli -. Resta poi il fatto che le parole della Chiesa e del cristianesimo sono parole della fede; e la fede ha il dubbio nel proprio cuore, e il dubbio si fa strada, lasciando delusi.
Per il cristianesimo, qualsiasi cosa accada, la Provvidenza non vien mai meno. Per la cultura del nostro tempo il mondo non ha invece alcun senso e quel poco che riusciamo a scorgervi siamo noi stessi a conferirglielo. Ora, se mi si chiedesse per quale di queste due convinzioni propendo, a bruciapelo risponderei: per nessuna delle due. Perché entrambe, da ultimo, hanno la stessa anima. Ritengono entrambe, infatti, che l’uomo e le cose siano presa del nulla. E questo è l’impensabile. Ma qui lasciamo da parte questo ordine di considerazioni, che ci porterebbe troppo lontano. Se allora quella richiesta circa le mie propensioni mi fosse riproposta, risponderei, sia pure con le innumerevoli riserve del caso, in due tempi.
Direi innanzitutto che la prospettiva per la quale il mondo non ha senso ed è caso è il risultato inevitabile del pensiero filosofico del nostro tempo. E aggiungerei che tuttavia ben pochi sono in grado di scorgere questa inevitabilità. Per cui, sì, è giusto affermare, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia su queste colonne (31 dicembre), che nella tragedia del Sudest asiatico la «morte di massa» si è presentata «all’insegna di una assoluta casualità»; ma si deve anche aggiungere che il problema incomincia proprio a questo punto, e cioè si tratta di vedere su quale fondamento si afferma l’assoluta casualità degli eventi e, in sostanza, del mondo. Si tratta cioè di sapersi avvicinare all’essenza della filosofia contemporanea, il cui peso decisivo nella storia della nostra civiltà, consiste appunto nell’aver portato alla luce (e spesso inconsapevolmente) quel fondamento.
Ma dopo aver detto questo, affermerei anche che il cristianesimo, sia pure attraverso le immagini e le metafore del linguaggio religioso, percepisce in qualche modo che il Destino domina il mondo, che dunque non è nelle mani del caso. Benedetto Croce diceva che la fede cristiana nella Provvidenza non differisce sostanzialmente dal fatalismo degli stoici. E per questo, nonostante il suo non potersi non dire cristiano, prendeva le distanze dal provvidenzialismo cristiano. Da parte mia penso che quella vicinanza del cristianesimo al Destino - ossia a ciò che sta al di sopra degli dei e degli uomini - è un segno della nobiltà filosofica del cristianesimo. Fermo restando che il grande compito di tutto il nostro sapere è appunto la decifrazione del senso autentico del Destino.
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