Corriere della Sera 3.1.05
Chiesa e Shoah: ecco perché la verità arrivò tardi
di Antonio Carioti
Anche se precisa che «i contorni della vicenda restano tutti da chiarire», lo storico Renato Moro, autore del saggio La Chiesa e lo sterminio degli ebrei (Il Mulino), non ha dubbi sul significato da attribuire al documento del 1946, pubblicato giorni fa dal Corriere della Sera, in cui la Santa Sede raccomandava di non riconsegnare i bambini ebrei ospitati nei conventi cattolici francesi durante la guerra. «È la conferma - osserva - che nell’immediato dopoguerra la percezione del problema ebraico da parte della Chiesa, nelle sue grandi linee teologiche e culturali, non risulta modificata dall’esperienza della Shoah. Questo vale per il Sant’Uffizio, per Pio XII e in una certa misura anche per monsignor Roncalli». Pensa che dietro le attuali polemiche possano esserci manovre volte a ostacolare la canonizzazione di Pacelli, come ha sostenuto padre Pierre Blet in un’intervista uscita ieri sul quotidiano Avvenire ?
«Assolutamente no, non vedo come. Stiamo parlando di un documento d’archivio, che verrà presto pubblicato in una raccolta. E Melloni è uno studioso serio, al di sopra di ogni sospetto. Né credo siano ragioni di ostilità verso Pio XII a motivare il grande rilievo che questi temi ottengono sulla stampa. I mass media non fanno che amplificare la particolare sensibilità che oggi si registra nell’opinione pubblica in materia di diritti umani, specie quando si parla della Shoah. Non sono solo i comportamenti della Chiesa ad essere discussi, ma anche lo scarso impegno delle potenze alleate per salvare le vittime del genocidio. Oggi abbiamo capito quale tragedia fu lo sterminio degli ebrei e guardiamo in maniera critica a coloro che allora non ebbero una percezione piena di quanto era avvenuto».
Non le pare che il comportamento del futuro Giovanni XXIII sia contrassegnato da un maggiore spirito di apertura rispetto a Pio XII?
«Prima in Turchia e poi in Francia Roncalli, nei suoi incarichi diplomatici, mostra una particolare sensibilità verso le sofferenze subite dagli ebrei. E presta loro aiuto con generosità. Ma a volte affiora in lui l’impostazione tradizionale del problema. Per esempio nel 1943, con la Shoah in atto e ormai nota, esprime disagio per la prospettiva che l’emigrazione ebraica in Palestina porti a compimento il sogno messianico della rinascita d’Israele. D’altronde diversità di vedute sul problema ebraico erano emerse qualche anno prima all’interno stesso del Vaticano».
Di che si tratta?
«Mi riferisco alla vicenda degli Amici d’Israele, una società cattolica nata per favorire la conversione degli ebrei, ma che poi s’impegnò soprattutto per migliorare i rapporti tra le due religioni e combattere l’antisemitismo. Essa propose di modificare alcune parti della liturgia tradizionale che apparivano poco rispettose verso il mondo ebraico, suscitando a Roma, nel biennio 1927-28, un forte dissidio. La Congregazione dei riti si disse favorevole a quei cambiamenti, mentre il Sant’Uffizio si oppose. Infine il papa Pio XI condannò gli Amici d’Israele, ma anche ogni forma di antisemitismo».
Insomma, le istanze poi prevalse nel Concilio venivano da lontano, ma faticavano a imporsi.
«È una ricerca da approfondire per comprendere meglio l’evoluzione della Chiesa. Solo così, dinanzi a documenti come quello uscito sul Corriere, si potrà evitare la sterile dialettica tra una reazione scandalizzata e una difesa apologetica. Per questo è auspicabile che si estenda l’apertura degli archivi vaticani realizzata di recente, in modo da consentire agli storici di ricostruire il processo decisionale che portò la Santa Sede a compiere le sue scelte di fronte alla sfida epocale della Shoah, che sottopose a una prova senza precedenti la coscienza religiosa cristiana».
Comunque lei sostiene che in un primo momento il genocidio non bastò a modificare l’approccio della Chiesa.
«Basta pensare che gli stessi conventi in cui si erano rifugiati gli ebrei accolsero poi molti fascisti e nazisti in fuga, compresi alcuni criminali di guerra: il diritto di asilo veniva riconosciuto anche a loro».
Le sembra dunque giustificata la polemica sulla possibile beatificazione di Pio XII?
«È una domanda cui non posso rispondere, perché in fatto di canonizzazioni la Chiesa applica criteri propri, ben distinti da quelli del giudizio storico».
Non crede che Papa Pacelli si sia dimostrato inadeguato di fronte alla tragedia di Auschwitz?
«Certamente a Pio XII sfuggì la specificità dello sterminio razziale, che considerò in modo riduttivo come uno dei tanti orrori perpetrati in guerra. Lo stesso vale tuttavia anche per i governi e le opinioni pubbliche della coalizione alleata. La consapevolezza di ciò che rappresentava la Shoah si fece strada per tutti in modo graduale».
Però forse il Vaticano, in base al messaggio evangelico, avrebbe dovuto mostrarsi più sensibile di quanto risulti dal documento del Sant’Uffizio.
«Il fatto è che la Chiesa dell’epoca non vede la libertà di coscienza e il dialogo interreligioso come dei valori, perché ritiene prevalente la verità oggettiva e assoluta di cui è portatrice. Non possiamo guardare alla Chiesa del 1946 come a quella di oggi, perché nel frattempo c’è stato il salto storico del Concilio Vaticano II».
Il pontificato di Roncalli fu decisivo per avviare il cambiamento?
«Sicuramente sì».
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