La Stampa 30 Gennaio 2005
di Alain Elkann
SAVERIO Costanzo, il suo film «Private» ha vinto il Festival di Locarno l’anno scorso e in questi giorni è in proiezione nelle sale italiane. Un film che non riguarda fatti di casa nostra, ma un grande tema dell’umanità, israeliani e palestinesi, come mai questa scelta?
«La scelta è dovuta all’incontro con le persone che diventa il motore della storia: un padre, una famiglia».
In che senso parla d’incontro?
«E’ una storia vera, ho avuto la fortuna di conoscere quest’uomo, di cui non posso rivelare l’identità per motivi di sicurezza. Ci siamo incontrati nella Striscia di Gaza dove mi trovavo per caso, ero andato a trovare una giornalista mia amica che lavora lì e mi ha portato nei territori occupati a pranzo in questa famiglia».
Dunque?
«Sono rimasto per lungo tempo lì. Prima facevo solo documentari sui luoghi ma entrando in quella casa mi sono accorto della potenza metaforica proprio della casa, nel racconto. Non potendo girare il documentario all’interno per motivi di sicurezza ho scelto di fare un film. Sono però rimasto due mesi con loro, a raccogliere informazioni. Quindi sono tornato in Italia e abbiamo sceneggiato il film».
Che però avete girato a Riace in Calabria...
«Sì. Abbiamo scelto di trovare un terzo luogo dove ambientare questo psicodramma. Abbia tentato l’astrazione dal reale per restituire la situazione vera. Protagonista del film è la casa dove vive una famiglia palestinese che a un certo punto viene occupata da soldati israeliani».
Sono tutti attori?
«Sì, professionisti molto importanti nel loro paese. Mohammed Bakri è una icona che vive molto intensamente la causa palestinese mentre il cattivo israeliano del film è un divo televisivo, Lior Miller e il suo pubblico è rappresentato dagli israeliani indifferenti. Gli israeliani non sanno molte cose non perché non vogliono saperle ma perché non ricevono le notizie».
Che cosa voleva comunicare con questo film?
«Che entrambi i popoli sono vittime della stessa guerra e che le scelte dei politici ricadono sulla gente comune. Persone non giudicabili attraverso generalizzazioni».
Pensa che il conflitto si risolverà prima o poi?
«Gli attori del film non hanno alcuna fiducia circa la risoluzione del conflitto. Però ritorna la parola del padre di famiglia nel film, che è il protagonista, quando dice una cosa vera: “gli israeliani che vogliono far terminare il conflitto e che ne hanno il potere, devono cominciare dalle scuole dei palestinesi e dare loro cultura, formazione. Insomma bisogna iniziare dalle giovani generazioni».
Sul set c’erano israeliani e palestinesi. Hanno lavorato in amicizia?
«Non proprio. Era richiesto loro di essere lì non solo come professionisti, ma anche come uomini, questo li rendeva in certi momenti fieramente palestinesi e fieramente israeliani. A volte si creavano tensioni molto forti».
Per lei era difficile rimanere neutro?
«L’ossessione dell’oggettività era fortissima perché entrambi cercavano di portarmi dalla loro parte. I palestinesi mostrandosi ancora più come delle vittime e gli israeliani tentando di essere più dolci e più docili di come in realtà sono».
Tutti contenti del risultato?
«Moltissimo. Si sono sentiti tutti riconosciuti per quello che volevano».
Il film è stato visto in Israele? in Palestina?
«Per ora al Festival di Haifa e dopo la proiezione tutta la sala ha voluto per due ore parlare con noi. Erano molto emozionati».
Lei insisterà su questo filone o sta preparando un altro film?
«Sto scrivendo una nuova sceneggiatura basata su un libro di Furio Monicelli “Un gesuita perfetto”. Un giovane che rinuncia alla libertà del mondo per chiudersi in un noviziato di gesuiti dove attraversa un percorso di fede, trova la libertà nella prigionia, nell’assenza del mondo».
Fa leggere le sue sceneggiature a suo padre Maurizio Costanzo?
«Solo per l’ultimo film non è accaduto, ma è stato un caso. Io stavo molto all’estero».
Che rapporto avete tra padre e figlio?
«Un rapporto di grande rispetto. Lui ha visto il film ed è rimasto molto colpito».
Che cosa le ha insegnato suo padre?
«Mi insegna soprattutto vederlo vivere. Il rispetto per il lavoro. Mi sento una responsabilità maggiore».
Il successo le ha cambiato la vita?
«No. I risultati contano poco per me. Conta di più il percorso che si fa per arrivare ai risultati».
Come giudica il cinema italiano?
«Molto bene. Ci sono registi da Bellocchio, che io ritengo il più giovane di tutti i registi, a Garrone, a Sorrentino, che fanno film italiani che potrebbero essere girati in qualsiasi parte del mondo».
Quali sono i temi che la affascinano?
«Il tema della libertà. Credo che il male del mondo sia dovuto a un carico di responsabilità rispetto alla libertà che gli uomini non sanno gestire. Per essere liberi ci vuole autodisciplina e un senso di responsabilità, bisogna che le scelte siano soprattutto morali. Io temo che non siano più di moda le scelte morali».
Allora che bisogna fare?
«La mia soluzione è quella di fare scelte sempre morali».
Che è successo nella sua vita perché lei senta così tanto questo bisogno? Non si vede libero?
«Forse mi sento troppo libero è ho paura di gestire questa libertà».
Con se stesso è rigoroso?
«Moltissimo. Ma non è facile evitare le tentazioni che porta la libertà»
Allora che fa?
«Imparo a resistere».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»