lunedì 21 febbraio 2005

Festival del cinema di Berlino
ha vinto la Carmen africana

Il Mattino 20.2.05
Berlino, vince la Carmen made in Africa
VALERIO CAPRARA

Berlino. Meno male che alla fine ci si diverte. Succede sempre più spesso ai festival, ma se state pensando alle piroette di Will Smith in «Hitch» state commettendo un errore: è il verdetto che ha cancellato di colpo le pensosità e le sofferenze della selezione. Cambiano le giurie, infatti, ma il principio resta quello di mantenersi ligi ai dettami del «politicamente corretto», di punire i titoli più avvincenti e d'inseguire l'eldorado della qualità nei risvolti più inopinati del cartellone. L'Orso d'oro va, infatti, a «U-Carmen eKhayelitsha», che altro non è se non l'ennesimo adattamento dell'opera di Georges Bizet nel contesto di una favela nera sudafricana: un'operazione vecchia come il cucco che ha, però, permesso al regista inglese Mark Dornford-May l'«incredibile» prodezza di tradurre i testi nel gutturale linguaggio xhosa. Un educato battimani terzomondista ed ecco l'Orso d'argento-Gran Premio della Giuria: «Il pavone» del direttore della fotografia Gu Changwei, che nel compiere il gran passo, però, non ha onorato il magistero dei suoi ex datori di lavoro Zhang Yimou e Chen Kaige. Un altro Orso d'argento, quello per la regia, va a Marc Rothemund per «Sophie Scholl - Gli ultimi giorni», certo ben impaginato e ben recitato (la protagonista Julia Jentsch porta in Germania anche il titolo di migliore attrice), ma terribilmente scontato nel suo nobile appello antinazista. Il resto è silenzio: quello che toccherà, purtroppo, al ragazzino Lou T. Pucci, migliore attore per l'inconsistente «Thumbsucker» e ai migliori contributi artistici di sceneggiatura e musica elargiti come contentino ai più tonici e meno politici «The wayward cloud» di Tsai Ming-Liang e «De battre mon coeur s'est arreté» di Jacques Audiard. Il cinema italiano poteva fare la sua figura in questo contesto, ma la selezione della fragile opera prima «Provincia meccanica» non poteva che portare all'oblio: meno male che il tradizionale premio Bacco, ideato dal ristoratore Massimo Mannozzi e assegnato dal cenacolo dei critici presenti a Berlino, è andato alla giovane promessa Luigi Falorni. Il cui saggio di laurea alla Scuola di cinema di Monaco, «La storia del cammello che piange», rientra, come si sa, nella cinquina dei candidati al prossimo Oscar per il miglior documentario. E veniamo all’ultimo fuori concorso, «Kinsey». Con il suo esaustivo excursus su «Il comportamento sessuale dell'uomo», Alfred C. Kinsey favorì nel '48 una storica rivoluzione nel costume americano e mondiale. Purtroppo il film di Bill Condon, presentato in chiusura della Berlinale, disegna con troppa farraginosità l'identikit del fondatore della sessuologia che ebbe il coraggio di scontrarsi con una diffusa mentalità di vetero-puritanesimo. Che Kinsey (1894-1956) venisse perseguitato dai media conservatori in qualità di «pornografo», non è una rivelazione; ma ciò che davvero dispiace è il metodo scelto da Condon per illuminare la vita privata del «Freud americano», un teatrino di ambivalenze e contraddizioni che si ripercuotono meccanicamente proprio nel rapporto sessuale con la moglie Clara McMillen, interpretata da Laura Linney. Certo non mancano le circostanze di forte impatto drammaturgico, dagli atteggiamenti bizzarri e naif del professore sostenuto finanziariamente dalla fondazione Rockefeller al cruciale rapporto con Clyde Martin, lo studente preferito dell'Università dell'Indiana che si ritrova ad andare a letto con entrambi i coniugi. L'interessante nucleo psicologico affonda, però, a poco a poco nelle pedanti e verbose cadenze di un qualunque biopic. «Anche io sono cresciuto in una società repressiva, come lo era l'Irlanda degli anni Cinquanta», ha dichiarato il protagonista Liam Neeson in conferenza stampa. «A quel tempo il sesso era un tabù assoluto» ha proseguito l'aitante cinquantaduenne, «ma non crediate che la società americana sia oggi molto diversa: anzi sta ritornando a essere assai puritana». «Kinsey è un personaggio che è e rimarrà controverso» aggiunge il regista Condon, «perché gli Usa sono un paese schizofrenico, pieno di sesso nelle immagini, ma sostanzialmente puritano. Se non siamo stati boicottati nelle riprese, poco ci manca; mentre invece è importante che si parli di sesso in un'atmosfera che ricorda molto quella della guerra fredda di cinquant'anni fa». Ancora secondo Neeson «Kinsey è stato un pioniere, un genio come Galileo, Pascal o Newton che ha colmato un vuoto nella coscienza dell'umanità. Uno scienziato che ha cercato di salvare la gente da danni riportati in prima persona, a causa della repressione della sessualità. Se ho scelto d'interpretarlo, tuttavia, è perché la sceneggiatura era perfetta: una condizione che per me costituisce la pietra miliare per sperare in un buon film». In attesa d'interpretare Lincoln per Spielberg, l'attore ricorda i due film appena girati: un kolossal sulle crociate di Ridley Scott e «Batman Begins» di Christopher Nolan.