lunedì 21 febbraio 2005

Pietro Ingrao, sul Corriere

Corriere della Sera 21.2.05
LA MIA ROMA
Intervista all’ex presidente della Camera sugli anni della giovinezza, dall’amore per il cinema all’impegno col Pci

«Con Blasetti sognavo la regia, poi arrivò la politica»
Ingrao racconta i suoi maestri, i miti, una città da scoprire nelle povere sale di quartiere: i «pidocchietti»
Antonio Debenedetti
«Appartengo a una famiglia di origine siciliana. Mio nonno era di Grotte, paese di zolfatari, nella Sicilia profonda, a un passo da Agrigento. Fu mazziniano, con Garibaldi a Varese nella terza guerra d'indipendenza, nel '68 mise in piedi una cospirazione repubblicana», racconta Pietro Ingrao, classe 1915, già presidente della Camera, a lungo deputato comunista. E poeta.
«Quel mio nonno paterno, un vero mito per me, scampò alle manette rifugiandosi da uno zio, cospiratore anche lui. Faceva il medico a Lenola, un paesino sulle ultime balze degli Ausoni, da cui si poteva facilmente trasmigrare a Roma e salvarsi dai soldati borbonici. Francesco Ingrao si innamorò della cugina e restò a Lenola, dove fu poi sindaco repubblicano».
La... cospirazione ce l'ha nel sangue, dunque, onorevole Ingrao. Senza contare che a scuola le capitarono dei docenti molto particolari.
«Ho studiato al liceo Vitruvio di Formia, dove ebbi la fortuna di conoscere due professori giovanissimi, antifascisti dichiarati, Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo. Ambedue giacciono, ora, nelle sale scure e mute delle Ardeatine. La mia formazione letteraria è avvenuta proprio in quei primi anni Trenta, anche frugando nelle terze pagine dei giornali, dove scopersi Ungaretti e Montale, Cecchi e Cardarelli. Mi piaceva molto Ungaretti, più di Montale. Avevo letto "Il Breviario d'estetica", ma non amavo Croce e nemmeno Carducci, salvo alcuni versi».
La giovinezza è, d'abitudine, la stagione delle grandi amicizie. Chi sono stati i suoi compagni di allora?
«A Fondi conobbi il regista Giuseppe De Santis, il pittore Domenico Purificato e il poeta Libero De Libero. Figura ombrosa e gentile, ci guidò alla Cometa, dove via via incontrammo il mondo complicato della pittura e della scultura romana della nuova generazione: da Cagli a Mafai, a Mirko, alla Raphael, a Guttuso che, nella cospirazione antifascista, divenne carissimo compagno, quasi fratello. Ma di arte io non ne capivo tanto. In quegli stessi anni frequentavo di malavoglia la facoltà di Giurisprudenza».
Lei partecipò anche ai Littoriali…
«Partecipai alla gara di teatro con un discorsetto sulle esperienze curiose di un regista d'avanguardia come Anton Giulio Bragaglia e presi parte alla gara di poesia con un brutto componimento sulla nascita della città di Littoria. Nonostante la sua pochezza arrivò terzo al vaglio finale in cui furono primi Sinisgalli e Bertolucci. Non ero in cattiva compagnia! Quando l'Italia fu liberata quella brutta poesia su Littoria mi fu duramente rinfacciata dai giornali di destra. Togliatti, invece, si mise quasi a ridere. All'epoca ero già direttore dell' Unità , o quasi».
E' frequentando Rudolph Arnehim - il grande teorico del cinema allora residente a Roma, dove rimase fino alle leggi razziali - che lei cominciò a sognare un futuro di regista?
«No. Ho cominciato a capire di cinema e di storia del cinema leggendo un giornale del G.U.F. di Venezia dove scriveva Francesco Pasinetti. Non era un critico di particolare finezza ma era un'enciclopedia vivente. Poi incontrai Gianni Puccini, divenimmo amici stretti. Puccini, già da giovanissimo, era un conoscitore straordinario del cinema americano ed era un grande giornalista. Fu con lui che feci la conoscenza di Arnehim».
Eravate, insomma, due cinefili.
«Con Puccini andavamo a scovare i classici del cinema nelle povere sale di quartiere. Fu proprio in un pidocchietto, il Colosseo, che scoprimmo "Il Milione" di Clair e qualcosa del genere avvenne con "Quatorze jullet" e poi, ancora, con il surrealismo sottile di "A nous la liberté". Mentre le prime comiche di Charlot le vedemmo al "Topolino", il cinemetto per ragazzi di Villa Borghese. Decidemmo, quindi, di iscriverci al Centro sperimentale di Cinematografia che, allora, si trovava in via Foligno. Là conobbi la splendida e un po' algida giovinezza di Alida Valli diciassettene. Ed ebbi come maestri Alessandro Blasetti e Umberto Barbaro. Noi eravamo pazzi di Charlot. Un giorno Barbaro, sentendoci portare alle stelle "Il Pellegrino" o un altro capolavoro di Chaplin, ci disse con il suo sottile sarcasmo: "Io, però, conosco uno che ci mette in più anche la piroetta…". E fece il nome di Totò, allora oscuro comico di provincia. Chaplin era di sicuro più grande, ma quella segnalazione di Totò era curiosa e geniale».
Lei, se non sbaglio, è un chapliniano irriducibile...
«Sì, Chaplin per me è stato la vetta del cinema. In un mio saggio, intitolato "Charlot, l'antagonismo dell'eroe buffo", scrissi che l'omino di Chaplin non è Pierrot, non cerca la luna. Vuol fare le cose più semplici: mangiare, bere, unirsi con una donna, lavorare, avere una casa, andare a spasso. Ma questi bisogni non riescono a connettersi con la logica, anzi con l'arbitrio della società in cui vive, con le sue leggi inique, con i suoi ritmi. Ecco allora sgorgare il comico: sino all'assurdo, al surreale. Il comico è però l'esplicarsi della contraddizione e al tempo stesso il segno dell'asprezza, del tragico e del patetico che le è implicito».
Mi parli adesso di Blasetti, l'altro suo maestro al Centro sperimentale.
«Era una furia. Veniva a strappi, sempre correndo. Ci insegnava più che cinema, recitazione per il cinema. A recitare ci insegnava anche Sharof, un russo che veniva dalla scuola di Stanislawsky. In quel primo anno il Centro non aveva un solo metro di pellicola da girare. Facemmo, perciò, scuola di recitazione e studiammo le tecniche del montaggio con Mario Serandrei. Imparavamo a fabbricare soggetti, a stendere sceneggiature. Non mettemmo mai in movimento macchine da presa, sospetto che non fossero disponibili».
A un tratto, però, lei ruppe con il cinema e si dedicò interamente alla politica.
«Fu un grande mutamento, cui mi spinse l'aggressione franchista in Spagna. La politica prese tutto il mio tempo. Non fu nemmeno una scelta, la mia. Fui trascinato da eventi terribili su quella strada che poi sfociò nella spaventosa seconda guerra mondiale».
Come e perché si tuffò senza riserve nella lotta antifascista?
«Fui guidato alla cospirazione da un gruppo di comunisti giovanissimi, verso i quali sento di avere un debito enorme. Costruimmo una rete cospirativa, in cui c'erano persone per me carissime: Antonio e Pietro Amendola, Lucio Lombardo Radice, sua sorella Laura (mia futura moglie), Paolo Bufalini, Aldo Natoli, Mario Alicata e Antonello Trombadori. Debbo ricordare però, prima di tutti, Bruno Sanguinetti, figlio d'un grande industrale (il padrone dell'Arrigoni): era cresciuto nell'ambiente antifascista triestino e fu grande amico di un poeta come Umberto Saba. Ebbe su tutti noi un'influenza formativa molto forte, nel segno del comunismo e dell'antifascismo».
E l'amore per il cinema?
«Non morì e non morì neppure l'amore per la letteratura. Amavo disperatamente Leopardi e, con l'aiuto di Arnheim, avevo incominciato a conoscere il grande Novecento europeo: da Kafka a Joyce e (prima ancora) a Rilke. Proust ce l'aveva già dato da leggere De Libero».