mercoledì 30 marzo 2005

Cork, 1621

Corriere della Sera 30.3.05
La verità e la realtà, diceva Melville, sono più bizzarre ...
Nell’ottobre 1621 i cieli di Cork furono teatro di una spaventosa carneficina aerea

L a verità e la realtà, diceva Melville, sono più bizzarre della finzione. Nell’ottobre del 1621 le cronache di Cork, la vivace città irlandese, riportano - con amore barocco del dettaglio fantastico e minuzioso - una apocalittica battaglia fra due immani stormi di uccelli che da due giorni avevano oscurato il cielo della città e intasato le sue strade con i corpi dei volatili che cadevano dall’alto morti o feriti. Il famoso film di Hitchcock - come l’omonimo racconto di Daphne Du Maurier da cui è tratto - impallidisce dinanzi a quell’antica e sepolta descrizione, perché l’effetto inquietante di quell’attacco assassino degli uccelli agli uomini è in qualche modo mitigato dalla presenza di questi ultimi, dai loro sentimenti, angosciosi ma comunque rassicuranti perché umani. L’atroce carneficina aerea di quei giorni nel cielo di Cork ignora invece quella presenza; fa l’orrore e il gelo di una natura in cui l’uomo è assente, non c’è ancora o non c’è più. La città sottostante alla strage è un cratere spento, in cui precipitano esseri alieni e straziati. I due giganteschi eserciti di uccelli - si trattava di stormi - si erano raccolti già quattro o cinque giorni prima dello scontro, in gruppi separati dai quali ogni tanto una delegazione di 20 o 30 si era recata nel campo avverso, forse a intavolare negoziati evidentemente falliti, se il sabato successivo le due tribù alate si erano affrontate e sbranate in una terrificante battaglia dall’alba al cadere della notte. La cronaca descrive il macello celeste, la nuvola nera dei combattenti squarciata da assalti e ritirate che per un attimo lasciano intravedere il cielo, gli uccelli che si dilaniano con strida assordanti e cadono a capofitto, insudiciando di sangue e di piume le vie. Dopo una tregua domenicale, forse dedicata a riorganizzare le file decimate, il lunedì le due armate di stormi riprendono a scannarsi in aria e alla sera, distruttesi a vicenda, spariscono senza vinti né vincitori, lasciando a terra mucchi di osceni cadaveri - fra i quali pure un corvo e una cornacchia, finiti per caso in mezzo allo scontro - sanguinolenta immondizia del cielo e grottesca allegoria dell’inutilità di ogni guerra, vano carnevale e trionfo della morte. Quel massacro - che il cronista dice confermato da testimoni oculari, tutti «onorati gentiluomini» - sporca il cielo e accentua la seduzione infera che spesso avvolge, nell’immaginario, la figura dell’uccello, col suo occhio maligno e le sue ali più da demone che da angelo. Non è un caso che ad esempio un’analoga fantasia ricorra, in possente stravolta poesia, in un libro scritto da un’autrice che non ha mai avuto sentore di quella dimenticata cronaca di Cork. Nel suo romanzo Una stella chiamata Assenzio - brutto titolo di un libro inquietante e affascinante, che aveva entusiasmato il grande Vanni Scheiwiller ed è passato ingiustamente quasi inosservato - Ambra Vidich Budinich ha narrato un viaggio onirico-iniziatico attraverso tutte le tenebre del sogno, della vita e della morte, in cui una Trieste genialmente deformata dal delirio diviene un paesaggio dell’incubo come la Praga-Perla nell’Altraparte di Kubin. Fra le peripezie del protagonista nei labirinti dell’angoscia c’è anche una misteriosa e malefica ecatombe alata: «Nell’aria, che andava oscurandosi come nell’approssimarsi di un’eclisse, si sentiva una vibrazione minacciosa ... il cielo, fattosi livido, era solcato in tutta la sua vastità da una funerea caduta di uccelli ... che come fossero folgorati nel corso stesso del volo da una misteriosa moria, stavano precipitando con le membra contorte sull’abitato: un istante dopo, infatti, essi avevano cominciato a schiantarsi sul selciato e sui tetti in una scura grandinata che di minuto in minuto si infittiva trasformandosi in uno stillicidio cruento; ancor più lugubre era quella vista su certe case fatiscenti che egli non aveva notate prima e sui cui muri lebbrosi e sulle cui polverose finestre egli vedeva adesso formarsi sempre nuove chiazze nerastre, miste a ciuffi di piume».
Il cronista di Cork non avrebbe mai immaginato che anche gli uomini un giorno avrebbero potuto volare e avrebbero volato per darsi la morte. A distanza di secoli, due scrittori che si ignorano scrivono pressappoco la stessa scena - quasi a suggerire che la poesia scaturisce dal fondo più oscuro e impersonale dell’immaginario e dell’inconscio collettivo e che un autore le presta solo la voce.