giovedì 10 marzo 2005

un nuovo libro delle Nuove Edizioni Romane

una segnalazione di Simona Maggiorelli

da Avvenimenti n 9, dal 4 al 10 marzo 2005

Il mago scurnacchiato diventa marajà
L’allegria contagiosa di una fiaba contemporanea di Filippo La Porta

C’è una fiaba contemporanea che vi consiglio caldamente di leggere e far leggere ai vostri figli: Il mago scurnacchiato, storia mirabile di Pasqualino degli Occulti alle Indie Orientali, di Pino Flora e Carlo Laurenti, con illustrazioni di Giulia D’Anna (Nuove Edizioni Romane, pp.121, 10,50 euro). Una storia fantastica che comincia in Occidente e finisce a Oriente, un apologo morale scritto dagli autori (rispettivamente uno storico e uno studioso di letteratura) con allegria contagiosa, un viatico fiabesco e però utilissimo all’esistenza, entro un mondo in cui le uniche favole a cui si crede sono quelle (mediocri) della tv. Pasqualino degli Occulti è un mago napoletano appunto “scurnacchiato”, scalognato, a cui non riescono quasi mai trucchi e magie. Così decide di lasciare la sua bella città e di andare in India. E in ciò i due autori fanno idealmente omaggio alla grande tradizione favolistica, che è nata in India (almeno nella sua forma scritta) e poi qui si è sviluppata specie a Napoli con Il cunto de li cunti, nel ‘600, un secolo prima di quello in cui si svolgono le vicende. In India Psqualino si imbatte nella città di Jalpur, ricca di fontane e palazzi, governata da un re sanguinario e capriccioso Mahadev. Chiamato a corte per scoprire un traditore, sbaglia la sua magia e così crea un altro Mahadev, senza che nessuno sappia più quale dei due sia l’autentico (a proposito: una ricetta geniale per “decostruire” il potere). La storia poi si complica e si dirama in altre storie, dove vediamo uomini trasformati in topi, e poi una topolina diventare una donna bellissima (una napoletana che Pasqualino sposerà dopo essere diventato maraja), e poi un primo ministro bugiardo a fin di bene, e infine una improvvisa, devastante siccità a cui il nostro mago scurnacchiato cerca di rimediare provocando un acquazzone che però farà sparire la città stessa e tutti loro. È come un happy end cifrato, dato che Jalpur è solo momentaneamente scomparsa, poiché se non troviamo più un oggetto ciò non significa che si è disintegrato: in realtà da qualche parte c’è ancora, come di notte il sole o di giorno la luna. Molti sono i riferimenti e le suggestioni: dal Mahabarata a Renato Carosone, dagli antichi testi sapienziali a proverbi inventati lì per lì (come "il dolore urla e la felicità è muta": provate a schiacciarti un dito e poi a divorare un tocco di cioccolato). La descrizione dell’India è splendida, con quel "brulicare della vita che contagia ogni cosa" e non distingui tra umani, animali e piante. Inoltre ci viene ricordato che se tutto è relativo, e ciascuno di noi sarà sempre “esotico” per qualcun altro, "la cosa certa è che la bellezza è la bellezza e la bontà la bontà". Una verità elementare ma preziosa, qui sapientemente diluita lungo la narrazione. Ma c’è una pagina dove si condensa la più profonda“filosofia” del libro. Lì dove si osserva che per gli indiani il fatto che uno sbagli le magie non è in sé così grave, come per gli occidentali, i quali "badano solo al risultato". Per la mentalità orientale invece un risultato "non è l’unica cosa che conta". Se volevi far comparire un agnello e invece si materializza un elefante, beh, avrai pure fallito, però qualcosa è successo, ed è sempre in un certo senso miracoloso. Così avviene per noi, nella vita quotidiana: la realtà quasi mai conferma le nostre previsioni o realizza i nostri fini ma sempre ci stupisce con qualcosa.