sabato 23 aprile 2005

25 APRILE

L'Unità 22 Aprile 2005
25 aprile, la difesa della Costituzione
Guglielmo Epifani

La ricorrenza del sessantesimo della Liberazione del Paese si presta - come è evidente - alle considerazioni che tradizionalmente il 25 aprile, ogni anno, ripropone. La memoria di quei giorni fondamentali per la liberazione del Paese, il ruolo che in questa ebbero le lotte dei lavoratori e l’impegno di tanti cittadini italiani, il rapporto che lega il processo di liberazione con quello della nascita della nostra Repubblica, della sua Costituzione e dei valori che da quella lotta hanno preso vita e consistenza.
Insieme con la Cisl e con la Uil - in questi mesi che precedono la ricorrenza del 25 aprile - abbiamo ricordato, in modo particolare, il contributo dato dalla lotta dei lavoratori alla Resistenza e alla Liberazione del Paese. A Bologna, Milano, oggi a Torino, Genova abbiamo ricordato soprattutto l’importanza di questo contributo, non soltanto nei termini dei sacrifici pagati dalla classe operaia (basti ricordare che dei quarantamila deportati italiani, almeno dodicimila furono infatti lavoratori).
Ma nei termini del segno che lasciò questa lotta dei lavoratori nel delineare le caratteristiche ed il valore del processo di Liberazione del Paese.
Gli scioperi del 1943 e 1944, in tempo di guerra, in zone occupate dall'oppressione nazifascista furono infatti un avvenimento di assoluto rilievo come tutta la stampa internazionale - a partire da quella degli Stati Uniti d'America - non mancò di sottolineare. Quelle lotte, originate dalle parole d'ordine della pace, del pane, della richiesta di orari di lavoro più dignitoso furono il punto di partenza di un cammino che portò poi, attraverso le lotte del 1944 e lo sciopero insurrezionale del 1945 a saldare in un unico percorso, il processo di liberazione ed il contributo che i lavoratori vi dettero. Esso riguardò le grandi concentrazioni operaie del nord-ovest, Milano, Torino, Genova, ma si ebbero poi ripercussioni di grande rilievo in una parte più consistente del paese: in Emilia Romagna, nel Veneto, nelle Marche, nell'Umbria, nella Toscana, nel Lazio fino a delineare una vera e propria mappa della rinascita del movimento dei lavoratori e della propria organizzazione nei luoghi di lavoro.
Abbiamo anche detto in queste manifestazioni, in queste ricorrenze che se il primo articolo della nostra Costituzione, unico in tutta Europa, afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro, lo si deve in gran parte anche a quella lotta, a quei sacrifici con cui molti lavoratori pagarono questa scelta di democrazia e di libertà.
Quest'anno, però, la ricorrenza del 25 aprile acquista anche altri valori. Siamo in presenza, infatti, di un tentativo di revisione della Carta costituzionale che ne altera molti degli equilibri raggiunti, anche sulla base di quelle lotte, e soprattutto assistiamo a tentativi costanti di mettere in discussione il significato di quel processo di Liberazione. Per noi è evidente che il tratto distintivo, che non può essere occultato, è quello in base al quale il Paese fu insieme liberato dalle forze alleate e in buona parte si liberò, da sé medesimo. Certo, non tutto il paese insorse, ma una parte migliore del paese insorse, si battè per la propria liberazione. È da quel processo di autoliberazione che si legge quel rapporto che lega questo processo, i contenuti ed i valori della Carta costituzionale e la storia democratica ed antifascista della nostra Repubblica. È per questo che si deve tenere alta la memoria ed il legame corretto fra tutti questi svolgimenti.
Non è quindi - come talvolta si dice - il tempo che passa ad alterare o allentare il valore di quella memoria, perché se il tempo che passa fosse il consolidamento e la condivisione sempre più vasta di quei valori, di quella lettura storica, il tempo sarebbe un omaggio rafforzato al significato di quella scelta. No. Il problema è l'uso che si fa dell'allentamento che il tempo produce sulla memoria, il tentativo di inserire in questo allentamento fatale, che passa attraverso le generazioni, una lettura distorta di quei processi e di quelle scelte.
Per questo saremo nelle piazze d'Italia - da Milano a Sant'Anna di Stazzema, dove fu perpetrata la più efferata strage nazista in Toscana - insieme con tanti, insieme con il Presidente della Repubblica, con tanti amministratori, con le forze politiche democratiche, con tanti cittadini in tutti i luoghi dove sarà celebrato il 25 aprile, per confermare quei valori e per ricordare il contributo che il mondo del lavoro dette per se stesso (da lì rinacque il sindacato democratico nei luoghi di lavoro, dopo la parentesi fascista) e per il significato che esso conserva per il futuro del Paese.

L'Unità 22 Aprile 2005
La Storia a chiare Lettere
Corrado Stajano
Tempi di revisionismo. Raccontiamo come sono nate le «Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana»
Il presidente Ciampi sarà lunedì prossimo a Milano per ricordare i sessant’anni della Liberazione. Ci sarà forse Berlusconi, presente per la prima volta in più di dieci anni, non ci saranno gli eredi dei fascisti, An, e non ci saranno neppure i leghisti. L’idea di una memoria condivisa presuppone una società diversa da questa in cui viviamo, figlia della Costituzione repubblicana. Invisa, invece, ritenuta un freno alla (sua) modernità dal presidente del Consiglio anche nel discorso di dimissioni al Senato. Conservi ciascuno, dunque, il proprio patrimonio di idee, di sentimenti, di passioni, vien da dire.
Più volte, negli ultimi cinquant’anni, il fascismo è diventato contemporaneo e lo si è studiato, vissuto e sofferto.
Nel 1960, l’anno di Tambroni; nel 1969, dopo la strage di piazza Fontana; nel 1994, dopo la prima vittoria elettorale di Berlusconi. Più di trecentomila persone sfilarono proprio a Milano da piazzale Loreto a piazza del Duomo sotto una pioggia scrosciante in una marcia interminabile di donne, di uomini, di giovani, di vecchi, di ragazzi giunti da tutte le regioni italiane per rendere, in quel 25 aprile, la consapevole testimonianza dei momenti gravi. Il fascismo diventò di nuovo contemporaneo dopo il 2001: non aveva vinto una destra normale, ma il premier di una destra fascistoide e rozza che in nome dell’antipolitica violava i princìpi dello Stato di diritto e anche i diritti della minoranza, oltre che mescolare con impudenza gli interessi della collettività e i propri affari di grande imprenditore pieno di guai con la giustizia.
Nel frattempo ha preso ancora più alimento uno spirito compromissorio che è sempre stato una componente del carattere di una buona parte del Paese. Il revisionismo gratuito e sfacciato, il gusto per il conflitto quotidiano su verità spesso incontestabili, il tentativo continuo di sporcare la vita degli altri, in particolare degli antifascisti, lo sforzo ininterrotto di omologare, unificare, eliminare le diversità, distruggere i fastidiosi valori del prossimo non allineato, sono diventati il segno di un tempo assai poco limpido.
Il tentativo in corso di stravolgere la seconda parte della Costituzione, lo sforzo quasi ossessivo di asservire l’ordine giudiziario e, infine, un disegno di legge dei senatori di An sui «ragazzi di Salò» ai quali si vuole riconoscere la qualifica di «militari belligeranti» equiparandoli ai partigiani, ai soldati dell’esercito di liberazione, agli internati militari, rappresentano il marchio di questa rovinosa politica «culturale».
L’equivalenza tra fascismo e antifascismo è il traguardo di una storiografia e di una memorialistica che ritengono l’attendismo la virtù primaria della nostra identità nazionale. Ha scritto Gustavo Zagrebelsky nella Nota introduttiva di una nuova edizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, pubblicata nei Millenni di Einaudi alla fine del 2002: «Chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista, ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto dal fronte opposto, certo sarebbe preso da grande stupore nel constatare l’estendersi di un giudizio che non solo assolve ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Ne trarrebbe anche motivo di grande sconforto e offesa, a causa della condanna e del disprezzo che quel giudizio implica».
Ha scritto ancora Zagrebelsky nella stessa Nota: «Non risulta che il fervore revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente alle Lettere, per tentare di sminuirne, relativizzarne, se non negarne l’alto valore civile. Può essere che, prima o poi, si arrivi anche a questo».
Ci siamo vicini. È spuntato, proprio di recente, qualche storico che fa le pulci alle Lettere einaudiane, il libro curato da Piero Malvezzi e da Giovanni Pirelli uscito nel 1952 e che ha avuto innumerevoli edizioni. Malvezzi e Pirelli vengono accusati di aver voluto erigere un monumento di carta retorico e strumentale alla Resistenza d’oltretomba, di avere enfatizzato l'antifascismo e, in nome dell’epica della Resistenza, di avere omesso o cancellato parole di umanità.
Allora forse non sarà inutile raccontare come sono nate le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Piero Malvezzi, dirigente industriale, funzionario dell’Euratom, insegnante nel carcere di San Vittore, autore di libri-documento (Le voci del ghetto di Varsavia, Scuola in carcere) usciva da una famiglia che ha contato nella società nazionale. Sua madre era nipote di Giuseppe Giacosa, l’autore di Tristi amori e di Come le foglie, imparentata con gli Albertini, i Ruffini, i Craveri. Suo padre, veneto, fogazzariano, modernista, era legato a Tommaso Gallarati Scotti e a Filippo Sacchi. Da giovane, Malvezzi aveva lavorato per un po’ di anni nel Sud, sociologo e pedagogista, con Umberto Zanotti Bianco con cui scrisse anche due libri (L’Aspromonte occidentale, Il martirio della scuola in Calabria). Tornato dalla guerra d’Albania senza una gamba, dopo l’8 settembre aveva preso contatto a Torino con i gruppi gobettiani della Resistenza. Arrestato, condotto alle Nuove, nel braccio tedesco, sentiva ogni notte i passi dei condannati portati alla fucilazione. «Sapesse che cosa lasciano scritto», gli disse una volta il cappellano. Una frase che non gli uscì mai di mente.
Dopo la guerra raccolse con Vladi Orengo le lettere dei fucilati del poligono di tiro del Martinetto, poi propose a Giovanni Pirelli di cui era amico di continuare insieme la ricerca nelle altre regioni italiane.
Giovanni accettò. Partigiano socialista, scrittore (La malattia del comandante Gracco, A proposito di una macchina) aveva rinunciato al suo ruolo di erede nell’azienda familiare: si sentiva in contraddizione con quel mondo. La ricerca durò tre anni, i due amici fecero lunghi giri in Toscana, a Roma, nelle Marche, nel Veneto, in Campania, parlavano con le madri, i padri, le mogli, i fratelli. Scoprivano con dolore, ma anche con orgoglio, l’Italia della Resistenza. La loro era una ricerca d’amore e di pietà. Ne uscì un libro evangelico, come lo definì padre David Maria Turoldo, un libro con un costante respiro religioso, contro la guerra e la violenza, altro che monumento retorico e strumentale, privo di umanità, infarcito di politica.
Il libro raccoglie 201 lettere di italiani qualsiasi. I militanti politici sono una minoranza, 41. Gli altri sono operai (60), contadini (11), artigiani (25), falegnami, sarti, fornai, un cuoco, un idraulico, un elettricista poi impiegati (15), tecnici, due ingegneri, tre professori universitari, due avvocati, una ventina di ufficiali di carriera con tre generali. Lasciano semplici messaggi, protagonisti, quasi sempre, gli affetti familiari, la casa, le piccole cose della vita quotidiana. I più sono poveri, parlano del cappotto da recuperare, dell’orologio da farsi restituire, chiedono perdono di dover morire per il dolore inflitto, perché conoscono le difficoltà della famiglia e sanno che cosa porta il lutto in una casa. Ma è di tutti la convinzione di essere nel giusto, nell’unica parte nella quale è doveroso battersi.
La lettera che piaceva di più a Giovanni era questa, scarna, di un meccanico di 18 anni: «Picco Aldo classe 1926 di Venaria (Torino) fucilato a Savona il 21-8-1944. Chi va a Venaria vada dalla mia mamma». A entrambi piaceva - se è lecito usare questo verbo - la lettera di Giacomo Ulivi, studente di 19 anni, fucilato dai fascisti della GNR il 10 novembre 1944 sulla Piazza Grande di Modena: «Non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere, pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere».
Pirelli e Malvezzi vissero quel tempo con trepidazione. I temi sono ricorrenti, la madre, la famiglia, i compagni, la patria. C’è la lettera di Paola Garelli, pettinatrice di Mondovì alla sua bambina: «Non devi piangere e vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio». E c’è, nella stessa chiave, la lettera di Umberto Fogagnolo, ingegnere della Ercole Marelli, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944: «Tu, Nadina, mi perdonerai se oggi io gioco la mia vita. Di una cosa però è bene che tu sia certa. Ed è che io sempre e soprattutto penso e amo te e i nostri figli. V’è nella vita di ogni uomo un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve abbandonare le parole. In questi giorni ho vissuto ore di dramma e la mia vita ha avuto momenti di tragedia. Tu però sii come sempre calma e pensami con tutta l’anima».
È un’Italia risorgimentale quella che si rispecchia in questo libro. È anche un’Italia contadina, vergine, fatta di sentimenti elementari, candida, priva di ambiguità nella sua lotta contro il fascismo.
Alla fine del lavoro, Pirelli e Malvezzi portarono il manoscritto alla casa editrice La nuova Italia i cui dirigenti lo rifiutarono. Giulio Einaudi, invece, capì subito com’era importante quel libro. Per Pirelli e Malvezzi fu un’esperienza importante della vita. Non gli uscivano dalla mente quei bigliettini, quei messaggi portatori di morte, ma anche di fede e di vita, lasciati ovunque, sui muri, su brandelli di carta, sul retro delle fotografie dei figli, incisi su una pagnotta, come Ignazio Vian - «coraggio mamma» - o con la punta di uno spillo sulla copertina di una Bibbia, come Guglielmo Jervi ingegnere dell’Olivetti: «Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea».