sabato 2 aprile 2005

Munch

La Stampa TuttoLibri 2.4.05
Munch, ossessioni
Lea Mattarella

«NON si dipingeranno più interni con gente che legge o donne che lavorano a maglia, si dipingeranno uomini che vivono, respirano e sentono, che soffrono e che amano...La gente comprenderà che vi è qualcosa di sacro e si leverà il cappello come fosse in chiesa». La dichiarazione di poetica è di Edvard Munch e la dice lunga sul suo destino di pittore di urla, angosce, malinconie, gelosie, disperazioni e paure, come recitano i titoli di alcuni suoi celeberrimi dipinti. Uomini che soffrono e che amano: eccone raccolti un nutrito gruppo in questa mostra romana curata da Øivind Storm Bjerke. In tutto un centinaio di opere tra olii, disegni e grafiche (catalogo Skira). Ci sono tutti i suoi temi prediletti, quelli su cui torna continuamente nel corso degli anni e che gli fanno precorrere molti aspetti dell'Espressionismo. La sua pittura deriva dall'esperienza individuale. Edvard non dimentica mai il suo tragico esordio nel mondo. «I miei quadri sono i miei diari» dice. E il racconto dei suoi primi anni di vita è scandito dalla morte: la madre e la sorella se le porta via la tisi, mentre per lui comincia un'esistenza in cui si sente un sopravvissuto, uno scampato. «Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l'infelicità di allora… Così vissi coi morti». Quando, nel 1880, decide di diventare pittore i suoi defunti se li porta sulle tele. Diventano spettri, fantasmi, visioni. Il dolore, il senso della perdita sembrano invadere tutto il suo immaginario. Volti lividi, sguardi allucinati, spazi che risucchiano e in cui sembra impossibile mantenere un equilibrio stabiliscono le coordinate di uno stile che diventa icona del malessere novecentesco. Tutto comincia a Löten, un piccolo borgo vicino Oslo (che allora si chiamava Christiania), dove Munch nasce nel 1863. Ma poi fondamentali sono i soggiorni a Parigi (il primo è del 1889). Significano scoperta dell'Impressionismo, ovviamente, ma anche conferma della predilezione per Paul Gauguin che aveva già visto in Norvegia nel 1883. Due passioni che messe in pratica significano luce e linea. La luminosità farà una breve apparizione, documentata in mostra da opere come Giovane donna sulla spiaggia, quasi un omaggio a Monet, o il Paesaggio di Nizza, tipico approccio dell'uomo del Nord alla natura mediterranea. Poi, per Munch, a rischiarare è più la luna che il sole del Sud. E il paesaggio arriva a diventare quasi un'astrazione, irradiato come un'onda da arabeschi e linee. Quel capolavoro di incastri che è il Chiaro di luna del Museo di Oslo, datato 1895, mostra come la linea per questo pittore non sia soltanto convulsa e concitata ma possa assumere anche un carattere più decorativo, meno tragico. Laddove invece questa interpreta il dramma in tutta la sua pienezza è in Disperazione, con quelle spirali blu e rosse, «sangue e lingue di fuoco» le chiama lui, che circondano il rassegnato protagonista. O nella litografia L'Urlo, derivazione dal suo quadro più celebre e più spaventoso, marchio della sofferenza dell'uomo contemporaneo, sottratto dal Museo di Oslo ormai diversi mesi fa e non ancora ritrovato. In quest'opera la linea che si contorce sul fondo è quasi la visualizzazione della voce della figura in primo piano: il suo grido si confonde con quello della natura. In poche parole non c'è scampo. Munch è un pittore ossessivo: pochi soggetti continuamente ribaditi. Sempre imbevuti di stati d'animo sofferenti. Morte e malattia la fanno da padrone. C'è la madre che ha appena partorito un bambino condannato da un male che diventa la sua unica Eredità. C'è la stanza della malata che sembra quasi una scena teatrale (tra le amicizie del pittore ci sono Ibsen e Strindberg) e poi, in diverse occasioni, ecco la Bambina malata, autobiografico poiché si tratta della sorella Sophie. Nella versione esposta in questa occasione tutto allude alla catastrofe. La pittura è leggera, accennata, convulsa, graffiata. I colori sono gelidi, stridenti. E, come sempre accade in Munch, c'è questo aspetto di «non finito» che inquieta e stravolge. «Dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto». La sua pittura si nutre di memorie e queste non sono mai rasserenanti. Per dire: la salvezza, il riscatto non li trovi neanche nell'amore. Le donne di Munch sono sempre fatali. Il bacio per lui è qualcosa che inghiotte; se qualcuno ti abbraccia è un Vampiro; l'eros è l'abbandono del sé ma non certo per incontrare l'altro; la Pubertà è la perdita dell'innocenza sotto l'ombra di un minaccioso fallo. Negli ultimi anni della sua vita, dopo un ricovero in una clinica psichiatrica, l'artista vive sempre più isolato. I suoi quadri sono le uniche «guardie del corpo». Quando muore, nel 1944, li lascia alla città di Oslo. Molti sono in cattive condizione perché lui non si è mai curato della loro conservazione. Li ha semplicemente «gettati nell'esistenza». Anche in questo erano il suo specchio.