giovedì 14 aprile 2005

Pol Pot
il comunismo come follia

La Stampa 14 Aprile 2005
IL 17 APRILE ‘75 COMINCIAVA LA SANGUINOSA AVVENTURA DEL LEADER DEI KHMER ROSSI. LA RACCONTA UNA BIOGRAFIA
POL POT
l’uomo che mangiava rivoluzione

di Claudio Gallo
Un sorriso freddo e mite, l’infanzia in un tempio buddhista, la giovinezza a Parigi. Qui incontra le idee anticolonialiste
e un marxismo eretico che i cinesi gli rimprovereranno

Esce da Rizzoli la biografia Pol Pot - Anatomia di uno sterminio (pp. 663, e25). Ne è autore Philip Short, un giornalista inglese che è stato corrispondente da Mosca, dall’Uganda, dalla Cina e da Washington per il Times, l’Economist e la rete televisiva BBC. In precedenza Short ha pubblicato una biografia di Mao Zedong considerata definitiva dagli esperti. In questa nuova opera ripercorre la vita complessa, e per molti versi oscura, di Pol Pot, un rivoluzionario che, in nome di una visione distorta del marxismo, ha insanguinato il Sud-Est asiatico. Di Pol Pot (all’anagrafe Saloth Sar) viene ricostruita l’infanzia mistica in un monastero buddhista. Il giovane proveniente da famiglia benestante viene poi rintracciato in Francia, a Parigi, nel turbine di un movimento di idee contro il colonialismo che determina nel giovane borghese la convinzione che gli cambierà la vita: è possibile creare un «nuovo uomo comunista». Questa utopia lo fece precipitare nella follia di una guerriglia che insanguinò quella che all’epoca si chiamava Indocina.
CHI avesse potuto osservare Phnom Penh dall'alto, tra il 16 e il 17 aprile 1975, avrebbe visto la città esplodere e sputare con dolorosa lentezza milioni di persone in colonne formicanti verso Nord e Sud. Pol Pot e i suoi khmer rossi, che avevano appena conquistato la capitale cambogiana, scacciando i resti del governo fantoccio filoamericano di Lon Nol, li vedevano marciare, attraverso le dovute purificazioni, verso un mondo di giustizia perfetta, mentre loro, le vittime, vedevano l'inferno sulla terra nel qui e adesso. Era tale la confusione, il dolore e lo spavento, che quelle masse sfigurate non riuscivano a percorrere più di tre o quattro chilometri al giorno. Racconta l'archeologo francese François Ponchaud, uno dei rari testimoni occidentali, che «i malati venivano abbandonati dalle famiglie al bordo della strada. Chi non riusciva più a camminare veniva ucciso da miliziani». Bambini sperduti cercavano le madri, donne partorivano nei fossi. La gente esausta si stendeva sopra i corpi dei soldati morti. Ponchaud non dimenticherà mai «un padre piangente che portava la figlia ammalata di dieci anni in un lenzuolo annodato al collo e un uomo con un piede che gli penzolava da una gamba, attaccato solo a un lembo di pelle».
La crudeltà del potere
Era il paradiso di Pol Pot, il leader della Kampuchea Democratica a cui il giornalista britannico Philip Short, autore di una celebre storia della vita di Mao Zedong, dedica una ponderosa biografia Pol Pot, anatomia di uno sterminio, pubblicata da Rizzoli.
Pensava forse di ritrarre la crudeltà del potere con un esempio irripetibile Elias Canetti quando, nel 1960, in Massa e potere ricordò la storia del sultano turco di Delhi Muhammad Tughlah che, nel 1329, sentitosi minacciato da certe lettere anonime gettate nella sala delle udienze, stabilì per decreto che tutti gli abitanti dovessero allontanarsi di quindici chilometri dalla città. Passeggiando per le vie deserte, il sultano incontrò ancora un cieco e uno storpio e li fece torturare a morte. Seicentoquarantasei anni dopo, trent'anni fa, mentre in Italia il Parlamento approvava il voto a 18 anni e al cinema davano Qualcuno volò sul nido del cuculo con Jack Nicholson, un altro Tughlak khmer emanava i suoi editti di deportazione di massa. C'era una differenza importante però, Pop Pot non voleva proteggere se stesso ma proprio il popolo che stava massacrando: le utopie rivoluzionarie degli ultimi tre secoli avevano lasciato il segno. La parte più interessente della biografia di Short è la minuziosa descrizione della formazione del giovane Saloth Sar (Pol Pot sarà il più celebre dei suoi futuri nomi di battaglia) dal villaggio di Prek Sbauv a Parigi, al ritorno in Cambogia, la «bildung» del futuro tiranno. Cortese, simpatico affabile eppure riservato, talvolta schivo. La dolcezza algida del suo sorriso resterà un tratto distintivo del suo carattere, un tratto così tipico tra i khmer, abituati a celare i sentimenti dietro al sorriso come la polvere sotto lo zerbino. Tra i 9 e i 10 anni, il bambino fu mandato un anno al Wat Botum Vaddei, un ampio monastero buddhista della capitale, accanto al palazzo reale, ad apprendere i precetti del Dharma.
Dopo un fallito baccalauréat al liceo francese di Phnom Penh, Pol si diploma in una scuola tecnica e ottiene una borsa di studio per l’École Française de Radioéléctricité. Quando, nel 1950, sbarca abbacinato nella Ville Lumière non sa sa neppure che cosa sia il comunismo. Condivide con i suoi coetanei khmer un vago sentimento indipendentista. Nella metropoli affascinante e tentatrice, (nella futura vulgata dei khmer rossi le città diverranno simbolo di ogni male, sebbene ci sia chi dice che l’esodo dalle città fosse dovuto a necessità alimentari) si avvicina al Cercle Marxiste e al pcf, all'inizio più per la loro radicale opposizione al colonialismo che per motivi ideologici. Pol Pot resterà per tutto la vita un marxista assai eretico e per questo sarà spesso rimproverato dai suoi dogmatici alleati cinesi. Per lui i tomi del Capitale sono indigeribili, meglio la Breve storia del partito comunista (bolscevico) dell'Urss o Il marxismo e la questione nazionale di Stalin. «Sono più facili da capire», confessò. Poi scoprì Sulla nuova democrazia di Mao Zedong che più si attagliava alla sua Cambogia. La ricetta del Grande Timoniere prevedeva lo scardinamento del potere coloniale attraverso una rivoluzione in due fasi: prima il momento del fronte nazionale e solo in seguito «la dittatura del proletariato». Il fascino politico, per un rivoluzionario del terzo mondo, stava nell’autorizzazione filosofica a saltare il passaggio del capitalismo borghese previsto da Marx.
Ma le radici dell'utopia criminale di Pol Pot, che non fece mai tradurre in khmer i testi marxisti, scendono ancora, giù fino al 1789, letto attraverso gli occhiali di Kropotkin. Quando il principe anarchico russo descrive nella Grande Rivoluzione la caduta di Luigi XVI, Pol Pot non può fare a meno di pensare alla Cambogia feudale e al principe Sihanouk. Senza mai distinguersi come radicale, il giovane continua a nutrire la sua anima di idee radicali. La mentalità rivoluzionaria sintetizzata pochi anni dopo, nel 1970, da Eric Voegelin nel suo Il mito del mondo nuovo (un libro allora poco amato dalle sinistre): «L'ordine dell'essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico», «da un mondo cattivo dovrà emergere, per evoluzione storica, un mondo buono».
Al ritorno in patria, nel 1953, Pol Pot che «mangiava e dormiva la rivoluzione», cominciò una doppia vita di militante segreto e cittadino borghese. Disse più tardi: «La polizia sapeva chi ero ma non che cosa ero». Di qui in poi la segretezza diventa per lui un’ossessione che lo porterà a cambiare molte volte nome e a celare spesso la sua attività anche ai compagni. Durante il declino e la caduta della dominazione francese s'inizia la lunga stagione della foresta dove, aiutato dagli odiati vietnamiti, si forma il movimento comunista. Il regime golpista di Lon Nol e le bombe americane (solo sulla Cambogia ne fu sganciato un quantitativo maggiore di tutte quelle lanciate sul Giappone, atomiche comprese) ingrossarono le file dei rivoluzionari che nel 1975 riuscirono a entrare vittoriosi nella capitale. Tranne qualche dirigente, era gente bestiale e sanguinaria che arrivata nella capitale, beveva l'acqua nelle tazze dei gabinetti e mangiava il dentifricio, ma era anche, nella mente di Pol Pot, quella «carta bianca» di Mao su cui si potevano scrivere le parole di giustizia del mondo nuovo. Dal 1975 per quattro anni di follia e soffrenza, tutti divennero carta bianca. E molti fogli immacolati finirono in cenere, inadatti alla perfezione socialista: su sette milioni di cambogiani, più di uno e mezzo morirono assassinati e per fame. Se questa biografia ha un difetto, è che mancano le voci delle vittime mentre abbondano quelle dei carnefici.
Nella furia del marxismo senza proletariato di Pol Pot, Philip Short ha voluto, forse con alcune imprecisioni concettuali, vedere l'influsso degli insegnamenti ricevuti da ragazzo nel tempio buddhista. Magari esistono delle simmetrie tra il buddhismo theravada e le concezioni dei Khmer rossi, ma l'insegnamento originale nell'utopia dei «killing fields» è distorto, squartato, caricaturale. Come ha notato Nayam Chanda sul Washington Post, difficilmente il buddhismo, che insiste ostinatamente sul rispetto della vita, può essere il retroterra culturale delle stragi cambogiane. Il celebre studioso francese di buddhismo khmer François Bizot, che fu prigioniero dei khmer rossi, colse certe somiglianze tra i corsi di rieducazione a cui era sottoposto e la disciplina monastica e chiese se c’erano affinità tra le due dottrine. Douch, il suo carceriere, oggi in prigione a Phnom Penh, rispose che non c’era alcun legame. Bizot lo scrive nel libro Le Portail, che pure è citato nella bibliografia di Short.
«Coscienza limpida»
Il 15 aprile 1998 Pol Pot è morto di malattia nel suo letto, in un capanno nella giungla, a cavallo della frontiera thailandese. La furia epuratrice che negli anni della fuga nella foresta e del ritorno alla guerriglia finanziata da cinesi e americani dopo l'invasione vietnamita, aveva decimato i suoi dirigenti, si era rivoltata contro di lui e da qualche tempo viveva agli arresti domiciliari. Si dice che avesse sempre lo stesso sorriso e leggesse avidamente Paris Match. Disse nell'ultima intervista: «La mia coscienza è limpida».